Sinestesia: è questa la sensazione che si prova al primo contatto con Alias, Amor. E l’Amore descritto in cinque capitoli da Elvira Muratore non è mai uguale a se stesso. Come tutti gli strumenti d’amore non sono uguali ai loro celebri fratelli. Sono dolci, delicati, sommessi, sanno sussurrare più che declamare, avvolti in quell’alone di mistero e fascinazione propria delle cose e degli oggetti che hanno attraversato i secoli e conoscono bene le passioni umane. Anche per questo, Alias, Amor è Amore altrove, in un altro luogo, fuori dal tempo che pensiamo di possedere, è Amore nonostante tutto, come unica via di profana redenzione.
Per far vivere questa egloga contemporanea, non poteva esserci interprete migliore di Valerio Losito: tra i più grandi solisti degli ultimi anni, è custode e messaggero di una viola d’amore “Ferdinando Gagliano” costruita a Napoli nel 1775, concessagli dalla Elsa Peretti Foundation. L’album, pubblicato nel 2020 dall’etichetta Da Vinci Classics, è impreziosito dalla narrazione fotografica di Federica Cocciro, immagini evocative che vibrano per simpatia con i testi e i versi cui sono affiancate. Sono queste le cinque fonti letterarie che hanno ispirato la compositrice, allieva, tra gli altri, di Ivan Fedele, eseguita e apprezzata a livello internazionale.
Il viaggio inizia con Narciso (Narcissus), ricco di eufoniche consonanze che sembrano sgorgare tutte dalla singola nota iniziale e da questa procedono verso il gorgoglio dei tremoli che accelera la narrazione. Ecco poi che accade qualcosa di magico: sembra quasi, a questo punto, che la musica non sia stata imposta da una penna, ma che nasca da sé, spontanea, sviluppandosi e crescendo sulle sue proprie matrici. Le corde diventano foglie, rami, alberi, attraverso i quali scorre la voce di Eco, ostinata e ipnotica, piena di luce e di sofferenza. Narciso finisce com’era iniziato, con una singola nota, pizzicata: un presagio, in fondo, del secondo brano, Haiku, tre versi di Matsuo Basho (Tornerà quest’anno? La neve che avevamo ammirato insieme…).
Qui le corde sono trattate in ogni maniera alternativa all’uso dell’archetto: pizzicate, tirate, sfregate, evocano il koto o lo shamisen, i loro percorsi modali e soprattutto i silenzi tra gruppi di note. È lo stesso silenzio che ci attenderemmo dopo quella domanda (Tornerà quest’anno?), proposta dagli intervalli ascendenti su cui cadono, insistentemente, le frasi iniziali. Eppure l’interrogativo non si esaurisce lì. In seguito, si veste di una voce diversa, un timbro rinnovato. Quanto è bello allora sentire il respiro dell’esecutore poco prima del finale: è l’attesa del ritorno che Elvira Muratore non ci mostra, ma ci lascia intuire, in una sospensione continua di quarte discendenti. Sono, in fondo, i puntini dell’ultimo verso, primi fiocchi di quella stessa neve.
Nel terzo brano, Amore sacro (Sacred love), si fa chiara la volontà, già accennata, di legare motivicamente i capitoli. Le due note che avevano chiuso il secondo, sono qui recitate un’ottava sotto e inframmezzate da un terzo suono: nasce una cadenza proprio dove non ce l’aspetteremmo, nei primi quattordici secondi. È probabilmente il capitolo più introverso dell’album, come esige la spiritualità richiamata dal titolo. Il registro prediletto è quello acuto, per niente o poco vibrato, lineare, limpido. La simultaneità delle corde fa risuonare temi alternati tra maggiore e minore, tesi tra andamenti melodici opposti, come a replicare lo sguardo che ognuno di noi pone contemporaneamente dentro di sé e verso l’Assoluto, alla ricerca di una verità, di una scintilla divina che è contemplazione, preghiera, purificazione. Oltre la morte (Beyond death), ispirato al Colloquio di Monos e Una di Edgar Allan Poe, è una parentesi di inquietudine inserita al momento giusto del racconto. Le voci degli amanti, rinati in un nuovo essere nell’oltretomba, sembrano rincorrersi tra le ombre ed è straordinaria l’abilità “teatrale” di Losito che mostra di sapere bene come trarre le virtù sinfoniche dal suo strumento. Le lunghe note finali soverchiano i pizzicati e allo stesso tempo sembrano i bordoni di striduli e improvvisi lamenti: un’eccezionale esempio di drammaturgia strumentale.
L’ultimo capitolo è anche il più breve: Vivamus… è il quinto carme del Liber catulliano, probabilmente il più conosciuto. La musica è qui fatta delle stesse allitterazioni del testo cui si ispira sebbene, più pacatamente, non si lasci mai travolgere dalle stesse pulsioni passionali.
I cento e mille baci di Catullo e Lesbia (anche se pare di sentirli intorno al terzo minuto) sono in realtà quelli “non dati”, quelli che sono rimasti dietro ai sorrisi e alle maschere, al velo uniforme che ci rende altri rispetto a noi stessi. Non è certo un caso, infine, che gli ultimi suoni siano i medesimi di quei quattordici secondi in Amore sacro, aumentati di semitono. Si uniscono i due estremi di un cerchio germogliato in medias res (ma vivificato già da prima) che, grazie a un’impressionante coerenza della narrazione sonora, in un certo senso ci rivela come, in realtà, ognuno dei cinque capitoli sia l’inizio di un viaggio sempre nuovo, intimo e personale.
Alias, Amor, dunque, è più di un disco: è un’esperienza unica e molteplice, fertile e profonda, di un’intensità vibrante e quantomai necessaria nella scena della musica contemporanea.
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