di Gabriele Cupaiolo
Rusalka, una delle più importanti opere teatrali di Antonín Dvořák – il suo corpus consta di 10 lavori in totale -, è spesso presente sui cartelloni musicali d’Europa e d’America, ma, sorprendentemente, a oltre 120 anni dal debutto – avvenuto al Teatro Nazionale di Praga nel 1901 – mai la si era rappresentata sui palchi meneghini del Teatro alla Scala.
L’opera del musicista ceco sarà eseguita al Piermarini dal 6 al 22 giugno 2023, contestualmente ad una nuova produzione diretta da Tomáš Hanus: la regia sarà affidata ad Emma Dante, le scene a Carmine Maringola e i costumi a Vanessa Sannino; protagonista il soprano ucraino Olga Bezsmertna.
Tomáš Hanus (Brno, 1970), al suo debutto milanese, è direttore della Welsh National Opera: proprio con Rusalka ha debuttato giovanissimo alla Wiener Staatsoper. Sul palco, accanto alla Rusalka interpretata da Olga Bezsmertna, troveremo Dmitry Korchak nei panni del principe, mentre Elena Guseva vestirà i panni della principessa dell’acqua; Okka von der Damerau sarà la strega Ježibaba e Jongmin Park Vodnik, lo spirito delle acque.
Dopo qualche tempo trascorso nel dimenticatoio, Rusalka è tornata alla ribalta negli anni ’80 grazie al facile lirismo, alla ricercatezza armonica e alla trama di notevole interesse. Come detto, in Italia la sua proposta si è rivelata ben rara, nonostante le occasioni di rilievo non siano mancate: si pensi alla Fenice di Venezia, che inaugurò la prima italiana nel 1958 (prima che nel Regno Unito, dove debuttò al Sadler’s Well nel ’59).
All’interno del folklore slavo le rusalka sono ninfe acquatiche capaci di attrarre nei gorghi gli sventurati che osano avvicinarsi. La leggenda per cui una creatura delle acque si rivolge a una strega al fine di trasformarsi in fanciulla, a costo del dono della parola e aspirando all’amore di un principe – che la tradirà e che lei,a seconda delle versioni, ucciderà o rifiuterà di uccidere sacrificando in cambio la sua stessa vita – è diffusa in numerose storie della tradizione nordica, sia slava che germanica. Il Romanticismo attinge con buon animo a questo tipo di temi: l’inquietudine del viandante, l’amore sfortunato, la rinuncia all’espressione individuale (la voce) in cambio della speranza dell’accettazione sociale, il contrasto tra natura e artificio, ma anche, secondo prospettive più propriamente cristiane, l’aspirazione a un’anima immortale che la creatura pagana otterrebbe subendo la trasformazione in donna.
Nel 1811 la leggenda fu codificata dallo scrittore tedesco Friedrich de La Motte Fouqué, autore di un’Undine oggetto di numerosi adattamenti negli anni a venire: già nel 1816 a Berlino viene rappresentato un Singspiel di E.T.A. Hoffmann, così come di pari ispirazione sono Zauberoper di Albert Lortzing – 1846, e Undine ou la Najade di Cesare Pugni e Jules Perrot, lavori londinesi del 1843. Anche Čajkovskij compose la sua Undine nel 1869, ma, insoddisfatto, distrusse la partitura, di cui ci restano solo alcuni frammenti. Al 1939 risale l’Ondine di Jean Giraudoux, andata in scena a Parigi.
Nella versione di La Motte Fouqué il finale favorisce la vendetta, a discapito del martirio autoinflitto: la ninfa, tradita, uccide il principe con un bacio mortale. Più positivo il finale della Sirenetta, la celebre fiaba di Hans Christian Andersen, risalente al 1837 e all’interno della quale la protagonista getta il pugnale prima di uccidere il principe, così da essere premiata con un’anima immortale che dopo trecento anni meriterà il Paradiso. Andersen pone l’accento sulla prospettiva più propriamente religiosa, ma le tematiche della diversità e della redenzione per astensione agiscono anche da riflesso dell’amore (irrealizzato) del nostro per il giovane Edvard Collin. La popolarità della Sirenetta nei paesi scandinavi, testimoniata dalla statua presente nel porto di Copenaghen, si è rinnovata grazie al film Disney del 1993; il remake, realizzato dalla regia di Rob Marshall, sarà nelle sale dal 24 maggio. Proprio quest’ultima versione cinematografica, attraverso la scelta di Halle Bailey quale Ariel, ripropone in altri termini i temi dell’identità, della scelta e dell’accettazione dell’altro.
Antonín Dvořák, ormai in là con gli anni, all’epoca della composizione gode di gran prestigio nel suo Paese. Figlio di un macellaio, cresciuto come violinista e violista in orchestra (tra l’altro avendo come maestro Bedřich Smetana, vero e proprio padre del nazionalismo musicale ceco), andò progressivamente affermandosi, fino a essere apprezzato da Brahms e a conoscere vette di gloria, prima a Londra – con lo Stabat Mater e le sinfonie n° 7 e 8 -, quindi a New York, dove aveva diretto il Conservatorio e scritto la Sinfonia Dal nuovo mondo.
Tornato a Praga, nel 1899 presentò con successo al Teatro Nazionale l’opera Il diavolo e Caterina, una commedia fiabesca che elaborava in una sapiente sintesti stilemi wagneriani e temi popolari. Per il titolo successivo, la sua nona opera, il direttore del Teatro Nazionale František Šubert propose a Dvořák il testo del giovane letterato Jaroslav Kvapil, che arricchiva la leggenda nordica con elementi del folklore boemo. Dvořák diede vita ad una partitura che assimila maturamente il linguaggio wagneriano, pur attenendosi ai territori della fiaba, e non a quelli del mito – a differenza del predecessore, e preferendo forme più tipiche del Romanticismo musicale quali la ballata. La rielaborata fluidità melodica, ricca di spunti nazionalistici e popolari, ha portato alcuni critici a parlare persino di un vero e proprio impressionismo ceco, di cui non vediamo l’ora di percepire l’essenza.
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