Candidato a 6 premi Oscar e trionfante al Sundance dove si è aggiudicato il gran premio della giuria, “Minari” è tra i primi titoli ad uscire nelle sale italiane in riapertura.
Prodotto dall’americana Plan B di Brad Pitt, il racconto autobiografico del regista Lee Isacc Chung, precedentemente dedito a documentari di impegno civile, ha riacceso il dibattito (già sollevato dal regista di Parasite Bong Joon Ho) sul superamento della barriera del sottotitolaggio, che secondo i criteri del Regolamento della Hollywood Foreign Press, lo ha visto concorrere nella categoria dei film stranieri.
Durante gli anni del reaganismo e della deregulation, una famiglia sud-coreana decide di trasferirsi dalla California all’Arkansas rurale, inseguendo il sogno imprenditoriale del padre di famiglia Jacob che, per liberarsi dall’odiato mestiere di sessatore di pulcini, vuole coltivare ortaggi coreani destinati ai compatrioti immigrati negli Stati Uniti. Le avversità non tardano a presentarsi, la penuria d’acqua e i debiti sono fonte di tensione e allontanamento tra moglie e marito. L’arrivo della nonna dalla Corea, porta caos e poesia nel ménage familiare, e il fragile figlio minore David, la cui cardiopatia preoccupa i genitori, intreccia con lei un rapporto speciale.
La duplicità identitaria, il sentimento di estraneità e il dolore dell’adattamento dei protagonisti, sono questioni che hanno riguardato il vissuto biografico del regista, cresciuto negli Stati Uniti da genitori coreani che, come altri, hanno inseguito il sogno americano e l’idea del benessere, sacrificandosi per le generazioni future.
Con delicatezza, il regista rappresenta la complessità di questi sentimenti, vissuti diversamente da 3 generazioni, quella del padre Jacob che desidera riscattarsi rifiutandosi di cedere a costumi e sistemi statunitensi, quella del piccolo David che, in conflitto con le proprie radici, prova repulsione per tutto ciò che è coreano, e infine quella della nonna (interpretata magistralmente da Yuh-Jung Youn, appena premiata come miglior attrice non protagonista), anticonformista e laica, che fa loro riscoprire la poesia della vita e i valori della lentezza e della pazienza (quella imposta dalla natura e dalla crescita della pianta del Minari, contrapposta alla velocità richiesta dalla pratica del sessaggio del pulcini).
La scissione in Minari non è dunque soltanto quella tra le due culture e le due lingue che si alternano nei dialoghi, ma anche quella tra cultura (razionalità) e una natura indifferente che non si lascia sopraffare (quando il raccolto della fattoria comincia ad essere finalmente rigoglioso, la famiglia rimane senza acqua in casa).
L’istinto di correre del piccolo David, senza poterlo fare a causa della sua fragilità cardiaca, non è altro che il sintomo fisico dell’ umana lotta per la sopravvivenza, sempre in bilico tra la consapevolezza della propria fragilità e il desiderio del suo superamento.
Un film dai toni pacati, in cui il conflitto non è mai gridato, semmai filtrato attraverso la fede nella riappacificazione e un’affettuosa compassione per le fragilità umane.
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