di Stefano Teani
Chiusura in grande stile per il 66º Festival Puccini di Torre del Lago. Con una prima di Madama Butterfly letteralmente eccezionale, la serata dell’8 agosto si aggiudica il posto d’onore nel ricco cartellone di quest’anno.
Il cast, composto da un pool di artisti di primo livello, ha talmente emozionato il pubblico da meritare a pieno lo scrosciante tributo di applausi che non sembrava voler cessare. Perfetta per il ruolo di protagonista Shoko Okada, musicalmente preparatissima, dotata di una voce versatile, sicura in ogni registro e con un discreto squillo, mai eccessivo. Colpisce inoltre la dizione che, sebbene a tratti tradisca la sua origine orientale, risulta curatissima e assolutamente chiara. Scenicamente accurata, con un naturale portamento elegante e raffinato, è capace di portare in scena quegli antichi e profondi valori tipici della cultura giapponese.
Ottimo sostegno ha apportato la Suzuki di Annunziata Vestri, vocalmente caratterizzata da un colore sempre nitido, a tratti squillante, con un registro grave profondo e ricco, senza indulgere nella tentazione di coprire eccessivamente i suoni per scurire un timbro già perfetto di natura.
Convincente il Pinkerton di Raffaele Abete, scenicamente appropriato e vocalmente adatto al ruolo. Con un timbro da vero tenore italiano ha saputo infondere al proprio personaggio la giusta sicurezza grazie ad acuti sicuri, omogeneità fra i registri e aderenza alle indicazioni del testo pucciniano.
Alessandro Luongo sembra fatto per il ruolo di Sharpless. Musicalmente ineccepibile, capace di muoversi con naturalezza nei vari registri; sulla scena ha recitato con partecipazione ogni momento di questo difficile ruolo, a volte sottovalutato.
Applauditissimo il Goro di Francesco Napoleoni, che si è mosso con destrezza nelle delicate interazioni sceniche con gli altri personaggi, fornendo quel sostegno forse non troppo evidente ma di fondamentale importanza. Altrettanto sicuro musicalmente, senza sbavature né vizi.
Ottima prestazione quella di Luca Bruno, che si divide fra Il Principe Yamadori e Il Commissario Imperiale. Cantante dotato di particolare musicalità, ha saputo differenziare i due ruoli trasferendo in ognuno l’atteggiamento appropriato, sia dal punto di vista scenico che vocale.
Molto bene anche Lo Zio Bonzo di Davide Mura, L’ufficiale del Registro di Alberto Petricca e Kate di Anna Russo.
Il Coro del Festival, diretto da Roberto Ardigò, è stato particolarmente commovente per almeno tre aspetti: per prima cosa è musicalmente preparato e curato in molti dettagli voluti da Puccini; inoltre scenicamente ha compiuto in maniera molto coinvolgente tutta una serie di azioni di grande effetto catartico (penso in particolare al momento finale in cui il bambino si benda; in questo caso si sono bendati tutti i membri del coro, a simboleggiare la cecità della società che finge di non vedere ciò che di tremendo accade nel mondo). Infine, ha vissuto con partecipazione lo svolgimento della storia fino alla fine, anche in quei momenti in cui non sarebbe stato direttamente coinvolto per cantare, e questo rappresenta un grande motivo di plauso.
L’Orchestra del Festival continua a rendere un grande servizio alla musica del Maestro. Questa particolare lettura, a cura del Maestro Enrico Calesso, risulta fedele al pensiero pucciniano e particolarmente scorrevole, priva di orpelli e manierismi. Anche il gesto risulta chiaro e sempre al servizio della voce, riuscendo a seguire i cantanti all’istante anche in quei rari momenti di scollamento dall’orchestra. Questa, molto reattiva, ha sempre seguito le indicazioni del direttore, trovando una ricchezza timbrica ed espressiva notevoli.
Dulcis in fundo, la regia di Manu Lalli. Talmente accurata, ricca e profonda di significato da essere banalizzata da ogni tentativo di spiegazione. Perfettamente calata nel mondo giapponese – con un magnifico Torii che domina al centro della scena – l’imponente scenografia composta principalmente da alberi (rigogliosi nel primo atto e devastati, ridotti a scheletri, nel secondo) pone l’attenzione su due temi di grande attualità: la violenza che l’uomo opera nei confronti dell’ambiente e quella nei confronti delle donne. La storia di Butterfly, infatti, è la narrazione di un vero e proprio stupro etnico, pratica di cui noi italiani deteniamo purtroppo un triste primato: oltre 80 mila uomini, ogni anno, si recano in Asia per poter avere rapporti con ragazze giovani e bambine. Tutto questo mantenendo sempre una grande attenzione agli usi e costumi giapponesi, a partire dal vestiario spesso di colore bianco (simbolo di lutto per la cultura nipponica), fino al rituale del Jigai, ovvero il seppuku femminile, operato giustamente recidendo carotide e giugulare col pugnale corto (Tantō). Una scelta etica, dunque, quella della regista, che vede l’opera (in particolare quella di Puccini) come mezzo per parlare anche di tematiche attuali. Ciò che più di tutto ha suscitato moti emotivi di profonda commozione è stata la sensazione che musica e regia fossero davvero unite in una sinergia di intenti, sempre l’una al servizio dell’altra, riuscendo a far emergere il genio pucciniano.
Dal punto di vista dell’amplificazione c’è ancora qualcosa da migliorare per quanto riguarda le voci che, a seconda dei movimenti scenici, entrano ed escono dai microfoni, ma nel complesso è stata buona.
Con un sold out pienamente meritato, il 66º Festival Puccini si avvia alla propria conclusione; l’augurio, insito negli appassionati applausi che hanno sancito il trionfo di questa toccante recita, è che anche i futuri spettacoli sappiano portare avanti la qualità raggiunta questa sera.
La recensione si riferisce alla serata dell’8 agosto 2020.
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