Ci siamo seduti con la produttrice francese per esplorare le sue origini e capire cosa lega dj e business.
La carriera di Chloé è ampia e parecchio variegata. È una dj, producer, scrive musica per musei, film e club. Dal Pulp di Parigi è arrivata a suonare in ogni angolo del mondo. E non mette nessun limite alla sua musica. L’abbiamo incontrata a Milano, durante il re-opening dello store di Bershka. Dove metteva i dischi, appunto, per quel discorso dei limiti.
Sembra che il tuo approccio alla musica sia davvero a 360°. Da dove arriva?
Diciamo che non ho mai deciso di diventare una dj, è successo per caso, un bel caso! Mia mamma era una disc jockey, nella Swinging London, metteva sempre la musica alta in casa, e mio padre aveva un’incredibile collezione di vinili e conosceva tantissimi aneddoti. Per me è stato uno step naturale. Poi ho scoperto la musica elettronica: non era così famosa all’epoca. L’ho scoperta con i rave, con i piccoli club. A quel punto ho deciso che dovesse entrare nella mia vita. A quel tempo era molto democratica, non era ancora così famosa.
Ed è cambiata molto,vero?
Ha perso un po’ dell’approccio artistico. Come tutti i movimenti: pensa al punk. Quando è iniziato era alternativo e poi è cresciuto, è andato in tutto il mondo. Quando qualcosa diventa popolare, diventa commerciale c’è più gente che ci lavora. C’è chi ci fa i soldi e piano piano si allontana dalla parte artistica. Si possono fare soldi? Certo, dipende da che tipo di persona sei. Io sono molto diversa, mi interessa essere sempre me stessa. Sono curiosa, e ho bisogno di questa curiosità.
E il fatto di avere una serata tua, fa parte di questa curiosità?
Beh, giro molto, conosco persone, mi danno delle demo e per me è naturale chiamare la gente a suonare. Fa parte della mia espressione. Come artista, non voglio essere coinvolta nel mondo del business, non fa per me. Io posso essere come sono perché giro, perché ho contatti. Mi piace stare in studio e girare, non rinuncerei a niente per avere anche tempo per il business.
C’è qualcosa che unisce le tue performance, che siano in musei, nei club o in luoghi come questo?
Per me è una performance, mi piace mettermi a rischio. È così che si diventa creativi, senza rischio non mi diverto. E le persone lo sentono.
Fonte: Rolling Stone Magazine
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