di Smeralda Nunnari
«È sempre stato più facile odiare e distruggere. Costruire e gioire è molto più difficile. Oggi abbiamo bisogno di un tipo speciale di coraggio. Non il tipo di coraggio che serve in battaglia, ma quello che ci fa lottare per quello che sappiamo essere giusto, vero e onesto.» (Elisabetta II)
Una figura, un regno che per settant’anni ha segnato la storia, la cultura mondiale, l’intera società e la vita di tutti noi. Sua Maestà, la regina Elisabetta II, con la sua ineguagliabile popolarità ha instaurato un legame profondo, nel tempo, correlandosi a generazioni diverse. Nella sua lunga reggenza, si è adattata, debitamente, ad ogni scenario, ad ogni cambiamento. Un volto raffigurato da oltre mezzo secolo su francobolli, sterline, banconote del Regno Unito, fonte di ispirazione e icona per la musica, il cinema, le serie televisive e i social media.
Elisabetta, appassionata di cani e cavalli, da ragazza, trascorre molto tempo con il pianoforte, nella music room di Buckingham Palace. Già durante gli anni della Seconda Guerra mondiale trascorsi nel castello di Windsor, impara a suonare il pianoforte assieme alla sorella Margaret, incoraggiate dalla Regina madre, che le affida, entrambe, al mentore Sir William Henry Harris, famoso compositore inglese, organista presso la Cappella di San Giorgio a Windsor, dove le due reali si dedicano a suonare e a cantare madrigali nel coro della cappella.
Nel 1952, l’University of London e l’University of Wales, conferiscono alla futura regina due lauree in Studi Musicali. Una solida formazione musicale, rafforzata, negli anni, dal suo impegno costante verso il mondo artistico musicale e attraverso l’istituzione della Queen’s Music Medal, che premia i musicisti a livello globale. Nel 2014 nomina la compositrice scozzese Judith Weir, prima donna Master of the Queen’s Music, rendendola responsabile di tutte le attività musicali a corte.
A Sua Maestà, amante della musica classica, legata agli inni tradizionali, ai canti religiosi, la musica leggera, tra il rock, il pop, il rap e il punk, ha dedicato numerose e famose canzoni di gruppi importanti nella storia musicale, dettate da sentimenti contrastanti: amore e odio. La sua figura, elegante e austera, viene fuori ammirata o detestata.
I Beatles sono tra i primi a scrivere un brano dedicato alla sovrana. I Fab Four: John Lennon, Paul Mc Cartney, George Harrison e Ringo Starr, nominati nel 1965, “sir”, baronetti dell’ordine dell’impero britannico, dalla regina, qualche anno dopo, chiudono il loro album Abbey Road del 1969, con un brevissimo pezzo di 23 secondi, intitolato Her Majesty, dove con geniale impertinenza, Paul Mc Cartney canta: «Sua Maestà è una ragazza molto carina / ma non ha molto da dire / Sua Maestà è una ragazza molto carina / e cambia di giorno in giorno. / Voglio dirle che la amo un sacco, / ma dovrei riempirmi di vino / Sua Maestà è una ragazza molto carina. / Un giorno o l’altro sarà mia, / oh, sì, un giorno o l’altro sarà mia.»
Lo stesso Macca, nel 2002, in occasione del Giubileo d’oro per i 50 anni di Regno, si esibisce su questo brano, al cospetto della sovrana.
La più celebre canzone collezionata dalla regina porta lo stesso titolo dell’inno nazionale: “God Save the Queen”, ma il testo dei Sex Pistols del 1977 è ben diverso: «Dio salvi la regina / Il regime fascista / Loro ti hanno reso un’idiota / Potenziale bomba H / Dio salvi la regina / Lei non è un essere umano», concludendo: «No future for you.»
Nel 1981 per la punk band scozzese The exploited, in “Royalty”, la regina diventa una vittima dell’abuso della classe lavoratrice. Wattie Buchan si domanda: «Cosa significa, oggi, essere un’altezza reale?» e conclude: «Vendiamola a un arabo».
All’indomani della guerra delle Falkland, nel 1982, i Crass, con “Big A Little A” cantano un messaggio della sovrana, in un’atmosfera inquietante: «Hello, hello, hello, ecco un messaggio della vostra Regina / Come figura di spicco dello status quo determino la scena sociale. / Mi preoccupo per la mia gente, voglio che viva in pace. / Così mi assicuro che stia in fila con il mio esercito e la mia polizia. / Le porte delle mie prigioni e dei miei manicomi sono sempre aperte / per i miei soggetti che osano chiedere di più».
Il brano “The Queen is dead” dei The Smiths che dà titolo all’omonimo album del 1982 è antimonarchico, sarcastico e dissacrante nei confronti della Regina Elisabetta e verso il figlio Carlo. Morrissey, frontman della band, rileva che il testo è allusivo e racchiude dei doppi sensi, ma non è riferito in senso stretto alla regina.
Gli Stones Roses, nel 1989, fanno il proprio esordio con l’eponimo album, un disco che include il brano “Elizabeth My Dear”, prendendo di mira, tanto la regina, quanto i vertici della monarchia britannica. Ian Brown, con la sua banda di Manchester canta che non avrà mai pace, finché la sovrana non perderà il trono: «il mio scopo è sincero / il mio obiettivo è chiaro / per te è finita / Elisabetta, mia cara».
Nel 1993, i Pet Shop Boys, duo britannico, costituito da Chris Lowe e Neil Tennant, cantano “Dreaming of the Queen”, colpiti da una statistica, in riferimento al sogno più ricorrente tra i cittadini britannici e raccontano di aver ricevuto la visita della sovrana e Lady D per un tè. Nel testo, la regina considera: «L’amore non sembra mai durare per quanto ti impegni.» Frase, non casuale, in un momento di crisi, nel matrimonio di Carlo e Diana.
Nel canzoniere elisabettiano, si contano, anche, omaggi italiani, tra cui “Elisabetta” di Igor Nogarotto del 2020. Qui, in uno dei suoi versi, lo scrittore e cantautore italiano scrive: «Elisabetta / sei una favola ma sei reale e a mezzanotte tu non vai di fretta.» Una canzone ironica e brillante. Nel videoclip ufficiale, in versione live-action, la sovrana danza con comici e personaggi dello spettacolo.
Elton John, in Canada, dal palco di Toronto ha dedicato alla sovrana “Don’t let the sun go down on me”, scritta con Bernie Taupin, dall’album “Caribou” del 1974. Il cantante, prima dell’esecuzione ha affermato: «è stata una parte importante della mia vita e come tutta la nazione sono profondamente addolorato nell’apprendere la notizia della sua morte. È stata una presenza stimolante che ha guidato il paese attraverso alcuni dei momenti più straordinari, ma anche più bui, con grazia, decoro e autentico e premuroso calore. Ho 75 anni e lei è stata con me per tutta la vita. Mi rattrista sapere che non sarà più con me. Ma sono contento che riposi in pace.»
Anche Elton John, nel 1997 viene toccato dalla spada di Giorgio VI. Sono tanti gli artisti che, a vario titolo, sono entrati a far parte dell’ordine dell’impero britannico, tra cui Mick Jagger. Ma si contano eccellenti rifiuti, come quello di David Bowie e della restituzione della medaglia da John Lennon, come protesta per l’appoggio agli americani durante la guerra in Vietnam.
La sua morte, riesce a lasciare attonito ed addolorare lo stesso Jonny Lydon, alias Johnny Rotten dei Sex Pistols che, sulla sua Pagina Facebook, porge le sue condoglianze, dicendo: «Rest in peace, send her victorious» e invita, con rispetto, a non far suonare la sua canzone del 1977.
Adesso, l’inno nazionale che si è suonato dal 1952 ai nostri giorni “God Save the Queen” viene declinato al maschile “God Save the King”. Auguriamo al re Carlo III che possa abbracciare saldamente l’immenso retaggio politico e morale della madre Elisabetta, regina per antonomasia, forza iconica e stella che, adesso, è passata a brillare più in alto.
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