“Guarda che bianca luna!”: dai versi anacreontici di Jacopo Vittorelli alla romanza di Vincenzo Bellini.

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di Smeralda Nunnari

«Io mi sono posto in capo di introdurre un nuovo genere e una musica, che strettissimamente esprima la parola…» (Vincenzo Bellini)

Vincenzo Bellini nasce a Catania il 3 novembre 1801, nell’allora Regno di Sicilia, primogenito tra i sette figli di Rosario e Agata Ferlito. Figlio e nipote d’arte: il padre, maestro di cembalo e organista, discende da un Vincenzo Tobia Nicola, rinomato compositore di musiche sacre che, da un paese della provincia di Chieti, và a studiare musica a Napoli e si trasferisce, poi, a Catania. Il piccolo Vincenzo, avviato alla musica all’età di cinque anni, inizia lo studio della teoria musicale e del clavicembalo. A sette anni, già, scrive le sue prime composizioni sacre e profane. Successivamente, il nonno desideroso di fargli continuare gli studi a Napoli, si rivolge alla duchessa e al duca di Sammartino, per ottenere la concessione di un sussidio. Ottenuta la borsa di 36 onze annue, il giovane diciottenne, recatosi a Messina, giunge al porto di Napoli, scampando a un naufragio, dopo cinque giorni di tempesta. Nei sei anni trascorsi da Bellini, come alunno e maestro, nel conservatorio della Napoli borbonica si contano numerose composizioni.

Guarda che bianca luna viene scritta nell’aprile del 1832 a Palermo per il mezzosoprano Almerinda Manzocchi, interprete della sua tragedia lirica I Capuleti e i Montecchi, al Regio Teatro Carolino, oggi teatro Bellini. Ottavio Tiby fa cenno a tale romanza da lui reperita e «rimasta inedita e sconosciuta», in un articolo di giornale del 1954 e in una nota contenuta nel volume Il Real Teatro Carolino e l’Ottocento musicale palermitano. L’unica fonte conosciuta è data da due copie manoscritte redatte da Tiby, di cui la seconda incompleta costituisce, forse, la bella copia disposta per la pubblicazione. L’assenza nella prima copia di ogni indicazione dinamica e agogica dimostra che essa è stata redatta su una fonte non autografa, dalla quale Tiby trae, anche, il frontespizio: «Guarda che bianca luna / Romanza / Del Sig.r Maes.o Bellini / Composta in Palermo / per la Sig.a Al. Manzocchi». La composizione si discosta dalla semplicità più o meno canzonettistica delle romanze o ariette precedenti, destinate a concerti privati, nate per allietare le Soirées musicales, tra borghesi e aristocratici, sia per la maggior estensione e articolazione, sia per la vocalità, a tratti estremamente ornata o scandita, ma comunque adatta a evidenziare e far risaltare il talento dell’interprete destinataria.

I versi della romanza sono quelli famosi dell’ottava anacreontica del poeta arcadico, librettista e letterato veneto Jacopo Andrea Vittorelli, in quattro quartine di settenari, a schema abbx, spesso, con il quarto verso tronco, sullo stile del lirico greco Anacreonte:

«Guarda che bianca luna! / Guarda che notte azzurra! / Un’aura non sussurra, /non tremola uno stel. / L’usignoletto solo / va dalla siepe all’orno, / e sospirando intorno /chiama la sua fedel. / Ella, che il sente appena, / già vien di fronda in fronda, / e par che gli risponda: / “Non piangere, son qui”. / Che dolci affetti, oh Irene, / che gemiti son questi! / Ah! mai tu non sapesti / rispondermi così.»

Nell’ode, il poeta si rivolge alla donna amata, Irene, invitandola a guardare la luna dalla luce bianca sullo sfondo della notte azzurra. Non c’è alcun soffio di vento, l’aria è immobile, nessun fiore si muove. Soltanto un piccolo usignolo svolazza dalla siepe al frassino e sospirando chiama la sua compagna. Quest’ultima non appena lo sente, scende di fronda in fronda e sembra rispondere: “Non piangere, son qui”. Il poeta, rivolgendosi a Irene, considera con amarezza che lei non ha mai saputo rispondergli così. Queste righe anacreontiche caratterizzate da leggiadria e musicalità, oltre che Bellini, hanno ispirato Franz Schubert e Giuseppe Verdi. La composizione belliniana per pianoforte e voce nella sua limpida bellezza, rispecchia tutta la prodigiosa vena melodica dell’artista. L’atmosfera malinconica e lunare ricorda altre sue composizioni dedicate alla luna: Casta diva e Vaga Luna.

Lo stile artistico di Bellini riesce ad armonizzare classicismo e romanticismo. Legato ad una visione musicale antica, fondata sul primato del canto, porta prima a Milano e poi a Parigi un’eco della cultura mediterranea, idealizzata nel mito della classicità. Un patrimonio culturale, capace di trascinare il giovane Wagner ad ambientare in Sicilia la sua seconda opera, Il divieto d’amare, ispirata alla shakesperiana Misura per misura. Fino a porsi sulla stessa scia belliniana, proponendone la limpidezza del canto a modello per gli operisti tedeschi. La musica del compositore siciliano, all’interno di una Bellini renaissance, ha attirato nel XX secolo l’attenzione di compositori d’avanguardia, come Bruno Maderna e Luigi Nono, che l’hanno reinterpretata al di là delle categorie operistiche, concentrandosi sull’ascolto della singolare concezione del suono, della voce e dei silenzi, che trovano peculiari radici nella musica dell’antica Grecia.

Oggi, a distanza di 222 anni dalla sua nascita, l’immenso retaggio musicale belliniano continua ad affascinare e far sognare attraverso varie esecuzioni, interpretazioni, rappresentazioni e continuerà a sfavillare su tutte le generazioni future, al pari della luminosa luna sublimata nelle sue composizioni.

 

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