Il Candido di Voltaire nell’omonima trascrizione operistica di Leonard Bernstein.

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di Smeralda Nunnari

«Un’opera originale ne fa nascere quasi sempre cinque o seicento altre, queste servendosi della prima all’incirca come i geometri si servono delle loro formule» (Montesquieu)

Il racconto filosofico di Voltaire Candide, ou l’Optimisme (Candido, o l’Ottimismo), pubblicato nel 1759, per confutare la concezione ottimistica del filosofo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz, proposto a Leonard Bernstein, come soggetto per un’opera teatrale, dalla prestigiosa commediografa americana Lillian Hellman, riesce a coinvolgere la genialità musicale del compositore statunitense.

Il contesto in cui nasce il racconto dello scrittore drammaturgo e filosofo francese è quello dei salotti borghesi, in piena età dei lumi, con la volontà di unire una storia leggera e seducente a precise convinzioni filosofico-sociali, per rischiarare la mente degli uomini, ottenebrata dall’ignoranza e dalla superstizione. L’autore stesso precisa la finalità della sua opera filosofica, con queste parole: «portare il divertimento a un piccolo numero di uomini d’ingegno». Un obiettivo raggiunto, attraverso la narrazione delle peripezie tragicomiche dell’omonimo protagonista e degli altri personaggi, che diventano le argomentazioni con cui negare ogni ottimismo filosofico e perpetrare un acuto attacco critico, verso ogni potere costituito.

Il devastante terremoto di Lisbona del 1755 e le successive persecuzioni nei suoi confronti, contribuiscono a rafforzare, in Voltaire, una visione disincantata del mondo ed a scrivere, prima, il Poema sul disastro di Lisbona, o dell’esame dell’assioma Tutto è bene (1756) e, dopo, il Candido. La catastrofe della città, scuotendo profondamente l’opinione pubblica del tempo, consente a Voltaire di dare un duro colpo all’infondata teodicea leibniziana, secondo cui la divina bontà sceglie, sempre, la migliore combinazione possibile, tra le infinite combinazioni delle monadi, pertanto: il nostro è il migliore dei mondi possibili.

Bernstein considera che, Lillian Hellman viene spinta a prendere in considerazione il Candido per un’opera musicale dalla tragedia del maccartismo: «un movimento così simile all’Inquisizione spagnola (non a caso rievocata nel nostro primo atto) da far accapponare la pelle. Il maccartismo si diffuse nei primi anni Cinquanta del nostro secolo, esattamente duecento anni dopo la tragedia di Lisbona, facendo sì che tutti i valori per cui l’America si era distinta finissero schiacciati sotto i tacchi di un giovane senatore del Wisconsin, Joseph McCarthy, e dei suoi sgherri dell’Inquisizione. Fu l’epoca delle liste nere di Hollywood, della censura televisiva, dei troppi licenziamenti, dei suicidi, degli espatri, dei rifiuti a concedere il passaporto a chiunque fosse solo sospettato di avere avuto contatti, magari una sola volta, con un sospetto comunista. Posso testimoniare, sulla mia pelle, che tutto ciò è vero.»

Nonostante le grandi aspettative, lo spettacolo, nella sua prima rappresentazione del 1956, si rivela un vero disastro artistico e finanziario. Il Candido di Bernstein finisce con il contare tante stesure e riprese successive. Al libretto originale di Lillian Hellman, con i versi di Richard Wilbur e ripetute revisioni, segue quello di Hugh Wheeler, nella versione del 1974, più fedele al romanzo di Voltaire. Su tale libretto, con le ulteriori revisioni, fino a quella del 1989, viene solitamente messa in scena, l’operetta comica, in due atti, di Bernstein

Atto primo: Candido, nipote illegittimo del barone Thunder-ten-Tronck, vive in Westfalia, nel castello dello zio, insieme ai due figli del barone, Maximilian, Cunegonda e la damigella Paquette. I quattro giovani seguono le lezioni di Pangloss, filosofo dedito ad insegnare loro che, qualunque cosa accada, vivono nel migliore dei mondi possibili. Pangloss, colto in flagrante con Paquette, dietro un cespuglio, dalla bellissima Cunegonda, spiega alla ragazza, che si trattava solo di un esperimento fisico. Cunegonda ripropone a Candido tale esperimento, e i due giovani finiscono con il confessarsi il loro amore. Il barone, scoperto quanto successo tra Cunegonda e Candido, infuriato, caccia il giovane dalle sue proprietà. Candido viene convinto, con l’inganno, ad arruolarsi nell’esercito bulgaro, che marcia su Westphalia. Nonostante le preghiere del barone, il castello viene raso al suolo e Candido piange su tanta rovina. Inizia, per il giovane, un lungo peregrinare, per terra e per mare, irto di sciagure. Ridotto in miseria, egli dona la sua ultima moneta a un mendicante, che scopre essere Pangloss, ormai, sfigurato dalla sifilide. Insieme, sopravvivono ad un naufragio e a un terremoto, sulle coste del Portogallo. Entrambi vengono arrestati a Lisbona dalla Santa Inquisizione, per eresia. Pangloss viene condannato a morte, Candido, afflitto dalle fustigazioni subite, continua il suo peregrinare, per il mondo. A Parigi, ritrova Cunegonda, diventata amante di un ricco ebreo, don Isaachar, e del cardinale, il grande inquisitore della città. Il giovane, dopo aver ucciso i due uomini, fugge con Cunegonda e una vecchia signora confidente della ragazza. A Cadice, Cunegonda viene derubata dei suoi gioielli. La vecchia signora, dopo aver raccontato la sua triste storia, in cui svela di essere una principessa finita schiava di pirati, si offre di guadagnare i soldi per la cena, cantando. La polizia francese tenta di arrestare Candido, per il duplice omicidio, di don Isaachar e del cardinale, ma egli riesce ad evitare l’arresto, giurando di combattere per i gesuiti in Sud America, così in tre salpano verso il nuovo mondo.

Atto secondo: Al mercato degli schiavi di Buenos Aires, si ritrovano Paquette e Maximilian, travestiti, in abiti femminili, da schiave, per salvarsi la vita. Il governatore della città s’innamora del giovane. Ma, dopo aver scoperto che non è una ragazza, lo vende ai gesuiti di Montevideo. Il governatore rivolge le sue attenzioni a Cunegonda, mentre Candido, ancora inseguito dalle autorità francesi, è costretto a fuggire, nella giungla, con il suo nuovo amico Cacambo. Insieme, giungono in un campo gesuita, dove Candido scopre che la madre superiora e l’abate sono, rispettivamente, Paquette e Maximilian. Il giovane rivela loro che, Cunegonda è viva e la sua intenzione di sposarla. L’arroganza aristocratica di Maximilian ha il sopravvento: la nobile sorella non può sposare un borghese. Ed aggredisce Candido che, nella lite, lo ferisce a morte. Continuando la sua fuga, Candido giunge nella mitica terra di Eldorado, dove tutto risplende d’oro e di pietre preziose. Ma, la mancanza dell’amata, spinge il giovane a riprendere il suo viaggio per raggiungerla. Così, dopo aver ricevuto in dono un gregge di pecore dal vello d’oro, Candido e Cacambo ripartono. Durante il viaggio tutte le pecore muoiono tranne due. Candido ne dà una a Cacambo, per riscattare Cunegonda, ancora prigioniera del governatore. Mentre lui andrà a Venezia ad aspettarli. Dopo altre numerose disavventure, tutti si ritrovano a Venezia, dove Maximilian è diventato prefetto di polizia, Paquette fa la prostituta, Cunegonda e la vecchia signora lavorano alla sala da gioco del perfido Ragotski. Quando riconosce Cunegonda tra le donne che lavorano al casinò, Candido sente un’abissale frustrazione e si pone interrogativi sul significato della vita. Cunegonda, la vecchia signora, Pangloss, Candide e Maximilian decidono di unire i propri beni, per acquistare una fattoria, nei dintorni di Venezia. Cancellata ogni illusione, attraverso le innumerevoli avversità, Candido comprende che, la realtà è ben diversa dall’ottimistico filosofeggiare di Pangloss. E propone a Cunegonda di sposarlo: “Non siamo puri, né saggi, né buoni; / Faremo del nostro meglio. / Costruiremo la nostra casa, taglieremo il nostro bosco, / E coltiveremo il nostro giardino”.

La valutazione di Candido viene ripresa, subito dopo, da tutti gli altri personaggi ed, infine, dal coro, mentre l’orchestra dipinge un epilogo, dallo scenario luminoso e sconfinato, che svela il significato profondamente metaforico, nascosto dietro l’apparente banalità della considerazione candidiana. Solo conoscendo se stessi, si possono coltivare i propri sentimenti, i propri talenti, le proprie idee, senza prevaricare sugli altri. Il nostro giardino si renderà, così, rigoglioso e pieno di vita, lontano da ogni vana retorica o presunzione di verità. Ed è provando a migliorare se stessi, che si migliora il mondo in cui viviamo.

In questa versione rielaborata dell’operetta teatrale di Bernstein, dopo l’overture, Voltaire stesso, diviene la voce narrante della sua graffiante satira sociale. Il compositore statunitense miscela vari stili musicali, dal classico al jazz, fino al musical, con elegante ingegnosità, realizzando un’opera dinamica, innovativa e complessa, nel suo sistema di rimandi tematici, che fa ridere e piangere, angosciare e consolare.

Il breve romanzo, con la sua arringa filosofico-letteraria, diviene il magnum opus di Voltaire, ispirando  numerosi adattamenti scenici, musicali, cinematografici, compresi celebri pittori, viene ripreso, anche, da Leonardo Sciascia, nel suo racconto del 1977, Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia, dove attua una critica verso la società a lui contemporanea, con evidente anticlericalismo: Un Candido, costretto a misurarsi con ipocrisie, ambiguità, contraddizioni reali ed ideologiche, contrassegnate dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Comunista. Sullo sfondo storico della realtà politica del dopoguerra, dopo lo sbarco in Sicilia degli alleati, temi e personaggi storici sono ricollegabili, per analogia, a quelli trattati dal filosofo francese. In un gioco continuo con il lettore, l’autore siciliano, citando quanto sostiene Montesquieu, ossia, che un’opera originale, come in geometria, diviene una formula, considera: «Non so se il Candide sia servito da formula a cinque o seicento altri libri. Credo di no, purtroppo: ché ci saremmo annoiati di meno, su tanta letteratura. Comunque, che questo mio racconto sia il primo o il seicentesimo, di quella formula ho tentato di servirmi.»

 

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