di Ruben Marzà
Potrebbe sembrare, al lettore poco attento, l’ennesimo sguardo lucido e un po’ desolato sull’attualità della musica italiana, corredato dall’immancabile nostalgia per i bei tempi andati. E invece nelle parole di Giorgio Battistelli, compositore italiano tra i più eseguiti del secondo Novecento, cova il fuoco di un’indomita volontà di mordere il tempo presente, di smuovere le fondamenta di una cultura troppo spesso rivolta al passato e alle sue certezze. Settant’anni da poco compiuti, un Leone d’oro alla carriera “per il suo lavoro di teatro musicale sperimentale e la sua intensa produzione operistica, realizzata dalle più importanti istituzioni europee”, Battistelli ha voluto gettare uno sguardo sulla propria vita di uomo e compositore: e lo ha fatto con un libro scritto a quattro mani dal titolo Per moto contrario. Autobiografia in forma di conversazione, in uscita a dicembre per le edizioni LIM, giovandosi del confronto con il giovane pianista e ricercatore siciliano Salvatore Sclafani.
Maestro, cosa l’ha spinta, oggi, a scrivere un libro autobiografico?
Tutto è partito da una semplice domanda, che mi è stata posta a più riprese in occasione della consegna del Leone d’oro: «Cosa significa per lei questo riconoscimento?» Oltre a rappresentare un importante punto di arrivo, e quindi di partenza, quel premio mi ha costretto a guardarmi indietro: e lungo il percorso ho trovato tante idee, tanti progetti realizzati e altri dimenticati, tanti ricordi che ho pensato fosse interessante mettere in ordine. Ora che il libro è finito, avendo attivato questo processo profondo della memoria, nuovi ricordi continuano incessantemente a emergere: ma ormai non si può fare più niente – se non un secondo volume, come mi ha suggerito Salvatore Sclafani, e già dare vita a questo è stato faticosissimo. Quello con Salvatore, a proposito, è stato un lavoro straordinario di pazienza, analisi e autoanalisi durato otto mesi.
Per lei è stato un modo per mettere ordine nei propri ricordi; per altri sarà certamente un’occasione di confronto con l’esperienza di un grande compositore.
Sono stato mosso da un desiderio di condivisione: scoprire tratti comuni con altri musicisti, compositori o/e interpreti, coincidenze che prescindono dalle generazioni ci fa sentire, in qualche modo, meno soli. Le difficoltà che incontrano i musicisti di oggi non sono così diverse da quelle del passato. Mi interessa anche proporre un’analisi a tutto tondo di ciò che avviene nel nostro campo, con un focus particolare sul teatro musicale.
Ambito al quale ha dedicato una fetta importante della sua produzione, con commissioni da tutto il mondo e lavori che hanno fatto la storia del teatro musicale del secondo Novecento.
Ho avuto un interesse naturale per la drammaturgia: è una dimensione che emerge spesso nella mia scrittura. Non intendo necessariamente una drammaturgia esplicita, una messa in scena: ma tanti miei lavori strumentali, anche di carattere sinfonico, partono da una visione, da elementi visivi che cerco di trasporre in una dimensione musicale e astratta. In generale cerco sempre di avere un approccio creativo, al di là delle esigenze esterne. Ogni progetto si sviluppa in modo originale: alcuni procedono per espansione, per proliferazione, altri invece per contrazione, si “asciugano”. Sono queste le dinamiche della creatività, che ho sempre cercato di ascoltare.
Dinamiche che si riflettono nel rapporto tra le opere stesse, che si parlano e che non rappresentano realtà isolate, ma formano invece una sorta di arcipelago.
Nel libro parlo, a questo proposito, di “opera-vita”. Ho sempre avuto difficoltà nell’abbandonare le idee: non sopporto la distanza, il lasciare andare. Cerco sempre di tenerle in vita attraverso la scrittura: una scrittura iniziata 50 anni fa e che non ha mai termine, in cui ogni lavoro è legato all’altro. Penso a Fellini: in molti sostenevano che in tutta la vita avesse fatto sempre lo stesso film, cosa che lui stesso non ha mai negato. Definirle citazioni sarebbe riduttivo: ogni mia nuova opera è invece la continuazione dell’opera precedente, pur contenendo soggetti diversi. Ecco, il concetto di eterogeneo è forse quello più pertinente alla mia dimensione creativa, quello che nell’estetica moderna si identifica nel pensiero radicante: radici che vanno in direzioni opposte e si nutrono di cose molto diverse, ma che tutte contribuiscono alla crescita di un’unica pianta.
Potremmo parlare, nel suo caso, di eclettismo?
Parte della critica mi ha attribuito questa etichetta, definendo la mia musica eclettica o postmoderna. Non che sia un’offesa, ma personalmente non mi sento né l’uno né l’altro. Si tende a usare il termine postmoderno di fronte a fenomeni che esulano dai canoni, anche se ormai il postmodernismo stesso appartiene alla storia; in musica, poi, ritengo che questo pensiero abbia avuto un minor grado di approfondimento rispetto, ad esempio, all’architettura. Di base credo che sia necessario vivere pienamente ogni passaggio di pensiero e di estetiche, attraversarlo: non sono che ponti per arrivare a nuove isole. Ecco, mi ritrovo molto nell’immagine dell’arcipelago.
Oggi in nome dell’eclettismo si compiono esperimenti che incrociano i generi musicali: pensiamo al recente Raffa in the Sky, l’opera lirica dedicata a Raffaella Carrà. Si tratta secondo lei della strada giusta per rinnovare la programmazione e attrarre nuovo pubblico?
A volte dei vincoli legati al consumo, al marketing di un’opera possono condizionare pesantemente il risultato artistico. La questione fondamentale, tuttavia, sta non tanto nell’idea in sé, quanto nel modo in cui la si propone. Se la scrittura riesce a eludere aspettative scontate, a scoprire nuovi campi espressivi, poco importa se il materiale è tonale, seriale, minimalista o altro. Certo, il momento delicato arriva quando si riconosce una forma che arriva dal passato: ma tale riconoscimento non pregiudica il diritto di sopravvivenza dell’opera. Il vero pericolo è quando il vincolo della comunicazione e del marketing si fa preponderante rispetto alla creatività. Stiamo vivendo una crisi dell’autorialità dell’opera.
Pensa che il nostro sia un tempo in cui il concetto di comunicazione rischia di sovrapporsi a quello di vendibilità?
In nome della comunicazione e della semplificazione si tende ad abbassare la qualità: c’è invece estremo bisogno di complessità e fantasia, è solo così che si può accedere a dimensioni nuove. Più che in un processo di semplificazione, credo in una ricerca dell’essenziale. Semplificare significa consumo più veloce, più facile; significa cadere in meccanismi che appartengono al marketing. Oggi il nostro lavoro sembra rispondere solo dei suoi numeri: quanto si produce, quanto ci vuole e quanto si ricava, quanto pubblico si attira, quante recensioni, quante apparizioni in radio e in tv… E qui si giunge nel campo della politica, nell’errore di concepire una cultura come vendibilità diretta. C’è una proposta artistica che ha facilità di produrre profitto, e un’altra che invece dev’essere sorretta e aiutata: non parlo di serie A e serie B, entrambe hanno diritto di esistenza. Ma diventa tutto molto difficile in un sistema che tende ad annientare ciò che è complesso, ciò che fa pensare troppo.
Occorre quindi accettare questa diversità, senza mescolare ciò che è colto e ciò che è popular?
Tornando a Raffa in the Sky, quello che mi ha colpito è stato l’apparato mediatico e la potente riverberazione prodotta. È stato tirato in ballo Adorno, la Filosofia della neue Musik, la pedanteria della scuola espressionista… Non ho mai creduto che un’opera potesse fare tabula rasa del passato: il conseguente è sempre un’elaborazione del precedente. Il leggero disagio che ho provato nella presentazione di Raffa in the Sky, più che nell’opera in sé, è dovuto al messaggio politico che si è voluto dare: una non accettazione della diversità estetica.
Arriviamo quindi al difficile rapporto fra tradizione e innovazione. Lei è stato per tre anni direttore artistico del Festival Puccini di Torre del Lago: come ha affrontato la sfida di rendere vive e attuali opere che sono ormai patrimonio di tutti?
Sembra diffusa l’idea, soprattutto in Italia, che per attualizzare certi autori si debba passare necessariamente dalla regia, dall’allestimento scenico. Autori che già di per sé sono incredibilmente attuali, ben inteso. Ma questo approccio ha penalizzato la partitura in sé e l’aspetto interpretativo. L’opera è la sua musica: è la lettura dei grandi direttori che la rende moderna, che può far brillare nuove trame nella drammaturgia invisibile della musica.
In passato si è spesso pronunciato a favore di un maggior radicamento dei festival nel tessuto sociale.
I festival in Italia sono circa 300, ma la gran parte viene vissuta come corpo estraneo, semplice ospite di un territorio. Un festival funziona, al contrario, quando è parte integrante del tessuto sociale e della comunità, quando la collettività lo riconosce come sua espressione: è quello che ho cercato di fare io a Torre del Lago, creando traiettorie che facessero dialogare Puccini con il suo tempo e con il presente. Ma pensiamo anche all’esempio virtuoso dei festival di Spoleto e di Martina Franca, oppure del Cantiere Internazionale di Montepulciano, che è nato proprio con questa filosofia: i risultati straordinari dei primi anni sono frutto di una vera e profonda empatia tra realtà politico-amministrativa e dimensione culturale.
La necessità più stringente è quindi quella di una maggior sinergia fra politica e cultura?
Certo, ma non dobbiamo neanche dimenticare l’importanza di una prospettiva. Il mestiere di direttore artistico può diventare incredibilmente semplice, se lo si interpreta come un mero coordinatore che delega ad agenzie o direttori d’orchestra la creazione di programmi. Al tempo stesso, nelle fondazioni lirico-sinfoniche, spesso il direttore artistico si trova “senza portafoglio”, ovvero soggetto alla decisione e all’autorità del sovrintendente: e se in questi casi non c’è un rapporto di fiducia ed empatia culturale, il risultato è una dicotomia che non porta a nulla di buono. Pensiamo al caso forse più eclatante degli ultimi anni, quello del Maggio Fiorentino, dove una programmazione priva di prospettiva e basata solo sui grandi nomi ha portato a un’implosione. Un direttore artistico fallisce quando non sa comunicare dove vuole portare il proprio teatro e la propria orchestra, e non riesce quindi a creare delle prospettive, degli orizzonti di sviluppo.
Da questo punto di vista, la figura del direttore artistico si carica di un valore etico e politico.
Assolutamente. Etica e morale sono le grandi assenti nelle istituzioni musicali italiane, salvo poche eccezioni. Quando parliamo di un’orchestra non dobbiamo pensare a un’entità astratta, ma a una comunità di persone, che cresce se vive un clima di comprensione e condivisione. Ci sono coloro che pensano la musica, e altri che sudano per produrla. Se si guarda a un teatro solo come a un insieme di numeri, il rischio che tutto crolli è grande. Servirebbe poi una legge ad hoc per contrastare un’altra pratica, purtroppo altrettanto diffusa e nociva: quella che basa la programmazione su una cultura dello scambio di favori, su interessi trasversali fra realtà musicali che avvantaggiano solo gli individui a discapito di quelle stesse realtà.
Torniamo infine al libro, e alla necessità di prospettiva e di dialogo. Sarebbe stato forse più semplice, per lei, scrivere una classica autobiografia: a cosa dobbiamo la scelta di un libro scritto a quattro mani con l’aiuto di un giovane musicista e ricercatore?
La domanda mi consente di toccare un punto fondamentale. Sono ossessionato dalla vecchiaia: non da quella anagrafica o biologica, certo, con quella amo anzi scherzare. Temo la vecchiaia del pensiero, il non essere più in sintonia con il tempo che vivo, e che è in continua trasformazione. Confrontarmi con un’altra generazione mi ha permesso di scoprire nuove e più ampie prospettive sul passato e sul presente. A volte il tempo ridimensiona gli avvenimenti: basta raccontarli e metterli nero su bianco per accorgersi di quanto cambi la loro risonanza. E poi mi incuriosisce sapere come un giovane musicista di oggi possa leggere queste pagine, le sue reazioni e opinioni riguardo al processo compositivo e alla nascita di un’opera. La vecchiaia arriva quando il pensiero che produci è vecchio: vecchio perché ripiegato su se stesso, su un passato che resta unico punto di riferimento.
Lo stesso si potrebbe dire per la cultura.
Esatto! I nostri teatri devono rinnovarsi nel modo di pensare la musica e di proporla. La conservazione non crea problemi, certo, è un modo pacifico di sopravvivere. Ma la cultura deve creare problemi e perturbazioni, mettere in crisi, porre domande. Le istituzioni italiane hanno perso l’audacia necessaria a portare avanti le musica del nostro tempo. La complessità del mondo va tradotta e narrata.
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