di Ruben Marzà
Saxofonista, compositore e didatta tra i più rinomati a livello internazionale, Philippe Geiss è Vicepresidente dell’International Saxophone Committee – ruolo che lo ha portato a coordinare l’organizzazione del 17° Congresso Mondiale del Saxofono (Strasburgo 2015). Artista versatile e dedito a numerosi progetti cameristici, insegna presso il Conservatorio di Strasburgo e il Senzoku Gakuen College di Tokyo.
Ho avuto il piacere di incontrarlo e confrontarmi con lui in una lunga e stimolante conversazione, uno sguardo a 360 gradi sul mondo del saxofono e su cosa significhi, oggi, fare musica e vivere di musica.
A proposito del suo ruolo di compositore, Lei è forse tra gli artisti che più hanno contribuito a sviluppare il repertorio contemporaneo per saxofono, dai brani solistici fino ai grandi ensemble. Si è trattato di una scelta puramente artistica e personale, o vi era all’origine la consapevolezza di una certa mancanza di repertorio?
Si è trattato innanzitutto di una scelta personale. I miei primi abbozzi di composizione risalgono a quando avevo 12 anni: ho sempre avuto l’abitudine di improvvisare, così ho iniziato annotando le mie improvvisazioni, e allo stesso modo annotavo le idee che nascevano al pianoforte, che ho molto suonato da autodidatta.
Ho realizzato poi molti arrangiamenti, e sono arrivate sempre più commissioni. Ci sono state diverse fasi: comporre per se stessi è una cosa, comporre su commissione un’altra, cominciare e continuare a pubblicare un’altra, comporre per gli altri e per essere compresi dagli altri un’altra ancora. Penso a una sorta di triangolo: in quanto interprete suono molta musica da me scritta o arrangiata, ma molto spesso (soprattutto in quanto insegnante) mi trovo a suonare musica scritta da altri. Per me sono tutte fonti di ricerca e ispirazione: non per copiare ma per osservare gli stili delle diverse epoche, che cosa interessa le giovani generazioni e quali sono le novità del momento (oggi, ad esempio, c’è un interessante sviluppo della ricerca bruitista) – e poi come collocare tutti questi fenomeni in relazione ai classici, a Hindemith o Glazounov. Ritengo ci sia un continuo e fruttuoso dialogo tra queste tre figure: l’interprete, il compositore e l’insegnante.
Non a caso, ascoltando le sue composizioni, si ha l’impressione che la figura del compositore e quella dell’interprete sfumino l’una nell’altra: ci viene proposta una musica pensata per l’esecuzione e spesso costruita in funzione del rapporto (anche fisico) che si instaura tra gli interpreti e con il pubblico. Si potrebbe forse parlare di una musica “sociale”?
Sono perfettamente d’accordo. La musica può essere considerata “sociale” a moltissimi livelli: oggi, poi, con la pandemia abbiamo forse riscoperto la musica come atto sociale fondamentale, gesto naturale. Quando ho composto i miei primi pezzi per orchestra, ho subito capito che si trattava di un gesto sociale anche semplicemente per il fatto di dover dare a tutti qualcosa da suonare.
Come insegnante ho un metodo che potrebbe sembrare sconcertante: la prima cosa che chiedo a ogni nuovo allievo è «Chi vuoi essere?». Per gli studenti che non si siano mai posti questa domanda inizia spesso una fase un po’ deprimente; ma una volta superata, osservo con piacere che non solo migliorano nel loro percorso, ma hanno anche maggiori probabilità di trovare poi lavoro. Ci sono persone che possono essere più a loro agio nell’industria musicale, piuttosto che come solisti – ma occorre ammetterlo e prenderne coscienza.
Devo dire poi che la mia storia personale mi ha portato a suonare musica di ogni genere, dalla classica al jazz, dal pop alla world music: tutto questo è dentro di me, ha contribuito alla mia formazione. Ultimamente mi interesso anche al mondo dello spazio, grazie all’amicizia con Thomas Pesquet [ingegnere e astronauta francese, ndr], e ho scoperto l’importanza della musica nella vita di un astronauta. Tutti stimoli importanti, in termini di ispirazione e apertura mentale. Non sono certo un’eccezione, basti pensare a Brandford Marsalis: artista estremamente aperto, jazzista con un approccio molto classico allo strumento (forse per questo lavora spesso con Sting), ha persino una lunga esperienza come attore. Quello che voglio dire è che tutto questo ci costruisce socialmente e ci rende ciò che siamo; per me la musica deve essere uno spazio di dialogo.
La sua musica «si colloca fra la tradizione classica, l’innovazione contemporanea, i suoni della world music e lo swing del jazz». Secondo lei, la tradizionale distinzione tra saxofono classico e saxofono jazz (distinzione che al momento riveste una certa importanza nel dibattito italiano, specie per quanto riguarda la formazione) è una distinzione “reale”?
Credo che sia un argomento da trattare con molta cautela: ci sono questioni tecniche ed estetiche che richiedono una certa riflessione, se non si vogliono fare stupidaggini. Guardiamo ai casi concreti: ho citato Marsalis, jazzista che suona un sax classico ed è cresciuto nella tradizione classica americana, suonando nelle marching band (non dimentichiamo, infatti, che nei paesi anglosassoni e in Giappone si inizia suonando insieme, e solo a livello universitario si comincia a specializzarsi; in Francia, ma anche in Italia credo, si inizia a crescere dei solisti dall’età di 4 anni). Oppure penso al collega Vincent David, strumentista straordinario, che è partito dal jazz; c’è purtroppo l’idea che per avere una grande tecnica classica contemporanea si debba evitare il jazz, idea che ritengo assolutamente falsa e controproducente.
Ci sono stati degli anni, durante i miei studi, in cui nei Conservatori francesi era vietato suonare jazz, si rischiava di finire fuori dalla porta [ride]. Oggi tutto questo non ha senso, per me: non si è certo obbligati, ma se c’è la possibilità di apprendere e di ricevere un arricchimento “frequentando” uno stile differente, perché privarsene? Da molti anni ho un progetto col jazzista americano Jerry Bergonzi, intrapreso proprio in questo spirito di scambio e arricchimento reciproco: ho imparato molto da lui, in particolare ho capito come il jazz sia utile per rilassare l’imboccatura classica (spesso troppo contratta). Unica controindicazione: ho notato come, nell’ambito di una scaletta da concerto o da studio, sia più semplice iniziare con un repertorio classico e finire con il jazz, piuttosto che fare il contrario – proprio per un discorso di imboccatura. Ma al di là di questo, non ho altro da aggiungere, se non: arricchirsi nello scambio. Come si dice spesso: chi non conosce il proprio vicino, ne ha paura.
Lei suona praticamente tutte le taglie di sax, dal sopranino al basso. Recentemente, nell’ambito dell’International Saxophone Stage di Fermo, ho avuto il piacere di assistere a una lezione del saxofonista svedese Anders Paullson: secondo lui, bisognerebbe superare l’idea che un saxofonista debba saper suonare un po’ tutti i sax, e concentrarsi quindi su un solo strumento (così come i grandi violinisti non pretendono di essere anche grandi violoncellisti, ad esempio). È d’accordo?
Sì e no. A 16 anni avevo un’ossessione: volevo tutti i saxofoni. Non ero che un giovane studente, ma ho iniziato a contrattare con Patrick Selmer, dicendogli: vorrei tutti i sax ma non ho abbastanza soldi, come possiamo fare? E lui mi ha aiutato (pensando fossi pazzo, probabilmente): di notte lavoravo scaricando camion e di giorno ero in Conservatorio. Poi, certo, ci sono sempre stati dei periodi in cui certi strumenti mi piacevano più di altri: con Bergonzi suonavo moltissimo basso e baritono – trovo che il sax basso possieda delle risonanze incredibili. Un altro strumento che ho sempre amato molto, ma che ho avuto qualche difficoltà a procurarmi, è il sopranino, l’outsider adorato: spesso ci si chiede come si possa essere intonati suonando il sopranino, per la mia esperienza l’unico modo è suonarlo in maniera crossover. C’è stato un periodo in cui mi dedicavo al tenore contemporaneo (per brani come Hard di Lauba); recentemente ho un po’ abbandonato gli strumenti gravi e suono soprattutto alto, soprano e sopranino.
Per rispondere a Paulsson: penso che quando si ha a che fare con stili diversi servano strumenti diversi, non c’è altra scelta se non agire in base ai diversi momenti e ai diversi progetti.
Lei è Vicepresidente dell’International Saxophone Committee, ed è quindi al centro del mondo del saxofono: quali sono oggi, a suo avviso, le principali dinamiche di questa realtà? Dove potremmo situare (a livello geografico) il centro del mondo saxofonistico?
Non credo vi sia più un centro. C’è stato un lungo periodo dominato dalle due scuole iniziate da Marcel Mule e da Sigurd Rascher, la scuola francese e quella americana: la prima si è conquistata un bello spazio nel mondo, colonizzando tra l’altro il Giappone, dove ancora si risente dell’influenza francese. Al momento mi sentirei più di parlare di interazione: un artista assai influente come Timothy McAllister, ad esempio, presenta una sorta di mix tra cultura americana e cultura francese, il che lo distingue un po’ dagli altri statunitensi. Proprio come nella cucina, siamo spesso davanti a uno stile fusion, ma che conserva certi tratti identitari: non dimentichiamo che oggi gli studenti viaggiano e ascoltano molto (per quanto in Giappone, dove pure il numero dei saxofonisti è immenso, solo in pochi si aprano all’estero, anche a causa della barriera linguistica). Oggi c’è uno stile giapponese, così come uno stile cinese in rapida evoluzione; c’è una scuola europea (si pensi alla classe di Arno Bornkamp o all’asse Bordeaux-Spagna); in Italia conosco molti saxofonisti formidabili, ma ho qualche difficoltà nell’individuare una scuola in particolare. Ci sono figure importanti come Mazzoni e Mondelci, ma non riesco a considerarli come leader a livello nazionale.
Di fatto, lo stesso Comitato opera in uno spirito di grande apertura e collaborazione tra paesi e continenti – il che rappresenta forse il suo maggiore punto di forza.
A questo proposito, quali sono i suoi consigli per quei giovani saxofonisti italiani che volessero conferire una dimensione internazionale al loro percorso – e anche, più in generale, a tutti coloro che volessero intraprendere una carriera musicale?
Il mio consiglio è quello di viaggiare, in un modo o nell’altro – per quanto, anche al di là della pandemia, per ragioni ecologiche probabilmente saremo costretti a viaggiare meno o in modi diversi. Agli italiani direi innanzitutto di viaggiare e incontrare nuove persone in Italia, arricchirsi di nuove esperienze, e di andare a vedere musicisti non saxofonisti (purtroppo noi saxofonisti abbiamo spesso la tendenza a restare soltanto tra di noi). Nutritevi e siate curiosi di tutto: a 18 anni non pensavo sarebbe successo, ma ho avuto la fortuna di suonare con gli Zulu o di lavorare in televisione nel mondo dell’opera – tutte esperienze che mi hanno formato come musicista. Allo stesso modo, ho appreso molto dal mondo della cucina e del teatro. Per ragioni forse più ecologiche che sanitarie avremo la necessità (e l’opportunità) di lavorare sulle risorse locali, sulle nostre radici: andare all’estero è bellissimo, certo, ma io ho appreso molto dalla musica tradizionale, e in Italia in questo senso c’è davvero tanta ricchezza.
Per concludere, potrebbe scegliere e raccontarci un solo momento, un singolo episodio della sua vita di musicista che ritiene particolarmente significativo?
Domanda davvero difficile. A livello aneddotico, non posso non citare il fatto di essere riuscito a inviare un sax nello spazio [ride]. Ma tra le esperienze vissute come musicista, forse ricorderei la prima volta che ho suonato da solista un mio brano con grande orchestra; o quando, con Jerry Bergonzi, sono stato invitato a tenere una masterclass e un concerto al Blue Note di New York – mi sentivo davvero piccolo a suonare nel tempio del jazz mondiale.
Ma l’evento che più mi ha segnato negli ultimi anni è stata sicuramente la decisione di organizzare il Congresso mondiale del saxofono a Strasburgo: un’esperienza veramente incredibile, la preparazione ha richiesto circa 10 anni, ma poi la soddisfazione di vedere arrivare 3000 saxofonisti da tutto il mondo è stata impagabile. Abbiamo lavorato con grande apertura e spirito di collaborazione, un’aria di famiglia che contraddistingue tuttora il Comitato: è bello pensare di avere amici dappertutto nel mondo e di avere altrettante opportunità di viaggiare, con la mente, con il cuore – e quando possibile in aereo!
Credo per questo valga la pena studiare e faticare sul proprio strumento, con impegno, giorno dopo giorno.
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