di Salvatore Sclafani
Alla vigilia della tournée in Giappone della Fondazione Haydn di Bolzano e Trento, con concerti dal 30 gennaio al 6 febbraio 2023 a Tokyo, Osaka, Fukuoka e Kagoshima, il direttore artistico Giorgio Battistelli, fra i massimi compositori italiani contemporanei, premiato nel settembre 2022 con il Leone d’Oro alla carriera alla Biennale Musica, si sofferma sui progetti futuri della stagione sinfonica da lui guidata, riflette sull’impatto educativo della musica del nostro tempo e definisce la sua visione della dimensione etica richiesta, oggi, ai musicisti e agli operatori culturali.
Maestro Battistelli, pochi giorni fa, sabato 21 gennaio, è stato trasmesso su Rai5 il suo Julius Caesar, un momento in cui la grande musica contemporanea ha avuto spazio in televisione. Quale sono state le sue sensazioni?
Se considero l’evento dal punto di vista del suo ruolo comunicativo, è un fatto di grande importanza: la televisione è un mezzo molto potente. Diffondere musica nuova attraverso questo canale aiuta a conferirle un senso di normalità, la rende maggiormente accessibile e fruibile, e smonta il pregiudizio che si tratti di un ascolto complicato.
Un concerto di musica contemporanea viene spesso vissuto, sin dalla fase di programmazione in una stagione, come un’eccezione. E questo valore di eccezionalità fa sì che essa appaia come ospite, non una presenza organica, ma tollerata. Quasi come un animale esotico gettato in una riserva.
Le fondazioni liriche e i teatri mettono raramente in programma un’opera attuale e il repertorio classico è ancora largamente preponderante. Eppure, la musica contemporanea è il nostro presente: agisce in maniera prismatica, poiché unisce diverse realtà percettive con cui ci mette in contatto. È capace di suscitare una riflessione sull’oggi e di condurci verso modi nuovi di guardare il mondo. E di ascoltarlo.
Tali scelte rivelano la difficoltà di offrire nuove proposte? Si teme, forse, la reazione di un pubblico non preparato ad accogliere musica nuova?
Sono convinto che la musica contemporanea, “moderna” poiché capace di creare novità, possa avere una funzione rieducativa del pubblico: essa può aiutarci a guardare il passato da una prospettiva diversa. Ascoltarla è fondamentale per ristabilire le proporzioni prospettiche fra tradizione e attualità: certo, si deve dare profondità e spessore alla prima, ma alla luce della seconda. Dobbiamo evitare una forma di consumismo per cui le stagioni concertistiche continuano a riproporre il patrimonio del passato con l’obiettivo di ottenere agevoli incassi.
Le abitudini delle giovani generazioni stanno apportando degli importanti cambiamenti: hanno unificato la musica attraverso l’ascolto non preconcetto di tutti i suoni del mondo. Molti definiscono tale processo una “contaminazione”, anche se aborro un termine del genere.
Ho potuto constatare come, nel nostro presente, non esistano più suoni esotici. La musica di oggi, nelle sue varie declinazioni, ha saputo recuperare e inglobare strumenti musicali e sonorità appartenenti a tradizioni musicali “altre”: da quelle dell’India a quelle persiane e cinesi, per citare le più ricorrenti, fino ad assottigliarne le differenze e la distanza rispetto ai linguaggi occidentali.
Il mondo dei suoni è cambiato e la musica moderna, d’arte, deve tenerne conto.
In quali termini si potrebbe attuare una forma di rieducazione alla fruizione della musica?
Nei workshop o masterclass a cui sono invitato, inizio sempre dalla scrittura, a prescindere dal grado di preparazione delle persone che ho di fronte: sono convinto che, a partire da un problema compositivo del presente, ci si possa rivolgere alla tradizione con maggior consapevolezza. È ormai datata, a mio avviso, la concezione contraria, ovvero che si debba cominciare a studiare dal passato, attraverso l’armonia tonale e il contrappunto, per poi giungere alla musica contemporanea. Si tratta del percorso tradizionale, ma non dell’unico possibile.
Ecco, studiare e fare musica moderna significa partire dall’oggi per poi guardare al passato. E non tutto ciò che è contemporaneo è moderno: quest’ultimo termine è, a mio avviso, applicabile unicamente alla musica d’arte che sappia creare una discontinuità costruttiva, una spinta in avanti.
Che sguardo ha sul suo attuale ruolo di direttore artistico dell’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento?
Sto cercando di costruire nuove proposte concertistiche per il pubblico del presente. Oggi, c’è bisogno di uscire dalle convenzioni, di immaginare forme artistiche nuove. In un’epoca segnata da una forte turbolenza emotiva, legata anche alla pandemia, è necessario guardare e ascoltare il mondo in maniera diversa.
Come operatori dello spettacolo, interpreti, compositori, direttori, dobbiamo renderci conto che si è ormai esaurita la fruizione dell’evento musicale concepito nell’Ottocento, nella sala borghese. È fondamentale, quindi, lavorare in sintonia con le esigenze del nostro tempo, in continua trasformazione. Ad esempio, una stagione di 15 concerti, con altrettanti direttori e solisti, costituisce, a mio avviso, un cliché, una formula superata.
Quando si pensa a una programmazione, è fondamentale creare delle traiettorie, essere chiari nella sua concezione architettonica. Anche rispetto alle proposte per le nuove generazioni: ritengo che, in una stagione sinfonica, l’inserimento di brani connessi con il repertorio jazz o di composizioni moderne facenti allusione a forme della musica leggera, costituisca una mera funzione decorativa, non organica.
Quali sono i progetti futuri della Fondazione?
La Fondazione Haydn ha scelto di creare progetti insieme ai direttori d’orchestra: è il caso della collaborazione con Ottavio Dantone, nostro direttore principale, con il quale stiamo lavorando all’incisione delle sinfonie londinesi di Franz Joseph Haydn; inoltre, nella prossima stagione, dirigerà composizioni del Novecento storico italiano e francese, oltre alla Sinfonia n. 7 in Mi minore di Gustav Mahler. La presenza di Dantone alla guida di tale repertorio costituisce senza dubbio un fatto sorprendente, che dà adito a risultati estremamente interessanti, visto che siamo abituati a conoscerlo nel contesto dell’Accademia Bizantina, dove interpreta magistralmente la musica antica. Di Dantone apprezzo la vitalità interiore e, al contempo, la delicata sensibilità.
Nella collaborazione con Kent Nagano, intravedo un elemento sociologico e antropologico. Un profondo collegamento fra l’orchestra e la città. Anche Nagano sarà impegnato nella direzione di almeno una sinfonia di Haydn ad ogni concerto: tale scelta fa parte del nostro desiderio di confermare l’Orchestra Haydn tra le più autorevoli d’Europa nell’interpretazione del compositore austriaco, di difficile accesso interpretativo per il suo linguaggio trasparente, capace di insegnarci ancora tanto sulla musica del nostro tempo. Anche dal punto di vista formale.
Mi fa molto piacere annunciare che, la prossima stagione, presenteremo proprio con Nagano un concerto-omaggio a György Ligeti, con il Concerto per pianoforte e orchestra e il Poema sinfonico per 100 metronomi, insieme a due sinfonie di Haydn. Ecco, tali contrasti, lungi dall’essere provocazioni, costituiscono in realtà delle rifrazioni culturali, in cui la musica moderna risulta capace di dare il senso prospettico del passato.
Anche Michele Mariotti dirigerà Mahler, nella stagione 2023-24 della Fondazione: in particolare, la Sinfonia n. 5. Infine, Thomas Dausgaard sarà impegnato alla direzione di un altro progetto con repertorio fra Nord Europa, Mitteleuropa e Italia, in una vera e propria prospettiva di geopolitica musicale. La nostra volontà è, quella di rendere duttile e modulare, dal punto di vista tecnico-interpretativo, un’orchestra di formazione haydniana.
Considero stimolante per questi direttori contribuire alla creazione di traiettorie così ampie. La Fondazione Haydn vuole evitare di essere un “concertificio”, un centro commerciale della musica. Non rincorriamo i numeri: il valore dell’arte dei suoni risiede in ciò che può lasciare, in maniera sincera, nella società.
Quale dev’essere la missione di chi fa musica, nel nostro tempo? Quali le responsabilità culturali e morali degli enti preposti?
Il musicista, oggi, deve avere una funzione etica e morale, anche se mi sembra che ci si stia allontanando da tale dimensione, preoccupati, come siamo, dalla competitività e dalla difesa del proprio piccolo territorio. Bisogna riscoprire l’importanza di rispettare il senso etico nel fare arte. In Parlamento si è discusso, recentemente, del testo normativo definito “codice dello spettacolo”: in realtà, penso che, prima di tutto, sia necessario rivalutare il codice etico e morale del nostro mondo, dagli organizzatori ai sovrintendenti e ai direttori artistici. È una responsabilità di natura politica. Attualmente, ho l’impressione che la cultura stia perdendo la sua funzione edificante all’interno della società, a vantaggio degli interessi di pochi, spinti da un’ipertrofia narcisistica. È inaccettabile che la risposta sia la via dell’indifferenza: molti lavoratori dello spettacolo stanno dando vita, infatti, a una vera e propria congiura del silenzio, in cui ci si vergogna a prendere posizione. Al contrario, dobbiamo agire con consapevolezza e pensare a come far crescere la collettività attraverso l’arte e la cultura, assumendoci la responsabilità di andare controcorrente, oltre la mera dimostrazione delle proprie capacità individuali, lavorando a favore della crescita di un territorio e muovendosi con lungimiranza e progettualità. Questa costituisce, per me, la dimensione etica della nostra professione e di questo hanno bisogno le istituzioni artistiche per nutrirsi e vivere. Abbiamo bisogno di dirigenti di spessore culturale e umano, con una capacità di disegnare un orizzonte.
E a proposito di etica del nostro mondo, vorrei, infine, soffermarmi sul pesante, sproporzionato attacco che Beatrice Venezi ha subìto in seguito al concerto al Senato con l’Orchestra Haydn da lei diretta, trasmesso su Rai1 lo scorso 18 dicembre. L’ho trovato eccessivo e ingiustificabile, mosso essenzialmente da prese di posizione più ideologiche che artistiche. Spesso, di fronte a una donna che dirige, una compositrice o una concertista, si applica una lente di giudizio più severa. E così si sottolineano con piacere anche le piccole mancanze e le fragilità. Penso che le critiche nei confronti di Beatrice Venezi, sulla sua chiarezza del gesto, sulla tecnica di fraseggio o addirittura sull’abbigliamento siano state animate da argomentazioni vetuste e fuori luogo oltreché, oserei dire, da scarso equilibrio di giudizio. Come si può sostenere un confronto tra chi ha maturato esperienza in anni di attività con chi è agli inizi della carriera e può sicuramente dire la sua negli anni a venire? Parliamo di aprire ai giovani ma poi li accusiamo di non avere esperienza, quasi che l’esperienza fosse una dote naturale e l’essere giovani una colpa. Da sempre, è normale considerare il network personale parte del nostro bagaglio professionale. Noto che è molto frequente la tendenza a considerarlo un merito quando parliamo di noi stessi e un favoritismo quando valutiamo quello degli altri.
© Tutti i diritti riservati.
No comments