di Ruben Marzà
Lorenzo Simoni, sassofonista di 23 anni, nato a Barga (Lucca), ha intrapreso un percorso di crescita e approfondimento che lo ha portato a dedicarsi con pari attenzione alla classica e al jazz. Vincitore di importanti riconoscimenti e borse di studio, il giovane strumentista ha da poco partecipato all’International Saxophone Stage di Fermo, presentando il suo brano Candela, edito per Da Vinci Publishing, e dialogando con i grandi interpreti del panorama internazionale.
Quali sono state le tappe della tua crescita musicale?
Ho iniziato a suonare nella banda del mio paese, scegliendo il sassofono in maniera abbastanza casuale. Ho frequentato per qualche anno i corsi preaccademici a Lucca con Sandro Tani, per poi entrare al Conservatorio Mascagni di Livorno – avevo 15-16 anni, non era ancora molto diffuso il fatto di entrare prima del diploma. Là ho terminato il ciclo di studi, e ora sto frequentando un ulteriore biennio a Siena Jazz: inizialmente volevo andare all’estero, poi vista la situazione pandemica mi sono fermato a Siena, anche perché là il corpo docenti è internazionale. Tramite il Premio Massimo Urbani ho vinto una borsa di studio per i seminari di Umbria Jazz; là ho ricevuto un’ulteriore borsa per i corsi estivi di Berklee. Sono stato a Boston circa un mese, a fianco di musicisti di altissimo livello; ero ancora molto giovane, però, e col senno di poi non credo di essermi goduto al massimo l’esperienza.
Come ti destreggi tra linguaggio classico e jazz?
Le differenze di approccio e tradizione sono notevoli, soprattutto raggiunto un certo livello: mi piace pensare al suono del sassofono classico come a una sorta di bonsai, da ottenere per sottrazione e lavorazione minuziosa nei confronti del suono naturale. Altrettanto fondamentale è la dinamica: dal mezzoforte in giù troviamo la parte interessante della gamma sonora del sassofono, quelle sfumature che aveva concepito Adolphe Sax. Nel mondo classico, ritengo che la dinamica faccia lo strumento.
Nel jazz l’approccio è completamente diverso, da un lato è molto più libero, meno rigoroso, ma lo studio è paradossalmente più complesso, il progresso è più lento, misterioso e meno misurabile. A livello didattico, è giusto che i due percorsi siano separati, almeno a livello medio-alto: sono di fatto due strumenti diversi, e per entrambi occorre una grande ricerca del dettaglio. In ogni caso, l’importante è avere la piena consapevolezza di ciascun momento e di ciascun ruolo, ed evitare le vie di mezzo. Se vogliamo parlare poi di cosa implichi impegnarsi su entrambi i fronti, devo dire che di benefici pratici e tecnici non ce ne sono: ciò che conta è l’arricchimento culturale che ti porti dietro in tutto ciò che fai, uno sguardo più ricco e profondo.
Hai da poco presentato il tuo brano Candela: com’è nata l’idea di diventare un esecutore delle tue stesse composizioni?
L’ispirazione è arrivata circa un anno fa, grazie ad alcune masterclass di sassofonisti classici stranieri, soprattutto francesi, che suonavano la loro musica; l’idea mi ha subito affascinato, è una valida alternativa rispetto al proporre sempre lo stesso repertorio di brani suonati da innumerevoli altri. All’inizio non avevo in mente che il titolo, l’inizio (uno slap tongue che suggerisce una sorta di accensione) e la fine (il soffio che spegne la candela): poi, non avendo competenze compositive a livello formale, ho voluto proporre qualcosa di legato all’improvvisazione, affinando su carta ciò che nasceva sullo strumento. Suonai Candela già alla mia laurea di Biennio a fine 2020; a dicembre 2021 è uscito il video ufficiale [link alla fine dell’articolo], mentre grazie a Da Vinci Publishing ho avuto modo di pubblicarlo.
Raccontaci della tua esperienza allo stage di Fermo.
È stato Massimo Mazzoni [professore al Conservatorio di Fermo e presidente dell’Associazione Sassofonisti Italiani, N.d.A.] a invitarmi a presentare il mio pezzo accanto a uno dei più noti compositori per il nostro strumento, Christian Lauba; Mazzoni non sapeva che proprio Lauba poco tempo prima mi aveva dedicato un pezzo, Riff, mai eseguito, è stata una coincidenza curiosa e l’occasione perfetta per presentare entrambi i brani. La formula dell’incontro online ha permesso poi di condividere l’esperienza con un pubblico vasto e con grandissimi ospiti, da Nobuya Sugawa ad Asya Fateyeva fino ad Arno Bornkamp.
Nel tuo percorso di sassofonista dedichi pari attenzione all’approccio classico e a quello jazz: hai riscontrato una simile apertura anche a Fermo?
Per quanto si tratti di una rassegna di sax classico, già nell’edizione online dello scorso anno c’era l’idea di aprirsi ad approcci diversi – basti pensare alla presenza di un ospite come Derek Brown. E proprio con Lauba si parlava della necessità di adattare il proprio suono in base al repertorio, proprio come un violinista cambia il suo fraseggio a seconda che stia suonando Mozart o Brahms. Non sono un grande fan delle etichette, ma è oggettivo che delle distinzioni ci siano, a livello di tradizione e di approccio.
Ma questa “apertura”, spesso stimolante e fonte di arricchimento, a volta rischia di essere controproducente: capita di vedere musicisti classici che si approcciano con una certa superficialità a tradizioni differenti, la cui storia e il cui spessore meriterebbero invece la massima serietà. Diciamo che preferisco chi ammette semplicemente «Non mi piace, quindi non lo suono», a chi si sforza di apparire aperto a ogni costo, magari snaturando l’idea stessa di ciò che va a proporre.
Qual è secondo te l’elemento più importante per la crescita di un musicista?
Mi sono sempre considerato un autodidatta, sia per la classica che nel jazz, ho imparato moltissimo ascoltando dischi e masterclass, dal vivo e online. Molte cose le ho scoperte da solo: anche l’esperienza a Siena, più che per le lezioni frontali, è bella per gli incontri e per l’ambiente che si crea. Nel mondo del sassofono classico, invece, ho trovato una certa mancanza di abitudine all’ascolto: tanti sassofonisti con cui ho interagito non avevano mai ascoltato il brano che suonavano, e non ascoltano gli altri interpreti. Anche nella didattica, il docente stesso dovrebbe consigliare nell’ascolto: tutto contribuisce a formare un gusto, magari disinteressato, uscendo dalla propria nicchia. In Italia invece persiste un certo campanilismo, che blocca la diffusione del sassofono e di certe conoscenze; allo stesso tempo occorre guardarsi da un certo feticismo tecnico, un gusto per la difficoltà fine a se stessa, che allontana la musica e l’ascoltatore. Quando si soccombe alla tecnica non può esserci musica.
Progetti per il futuro?
Sto portando avanti l’idea di un lavoro monografico dedicato a Jacques Ibert, affiancando al suo celebre Concertino da camera per sassofono una serie di trascrizioni; al momento sono alla ricerca di un’etichetta interessata. Sono un convinto sostenitore delle trascrizioni, purché fatte con criterio filologico e con senso musicale: nel caso di Ibert, il Concerto per flauto è quasi coevo del Concertino per sax, e quindi ho immaginato che anche il primo fosse stato scritto per sax contralto. Serve sempre grande rispetto per il repertorio e lo strumento che si va a toccare. Porterò avanti, inoltre, il duo con la pianista Susanna Pagano; tengo molto a suonare in contesti non legati esclusivamente al mondo del sax, laddove molti sassofonisti classici tendono a isolarsi in contesti chiusi e autoreferenziali. Credo invece che sia importante impegnarsi e mettersi in gioco nel mondo della musica tout court, specie cameristica; la considerazione in ambito sassofonistico viene poi da sé, mentre non sempre funziona il contrario.
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