La IX Sinfonia “Corale” di Beethoven tra i versi di Schiller e il fregio di Klimt.

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di Smeralda Nunnari

«Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me».

(Citazione dalla Critica della Ragion Pratica di Immanuel Kant, riportata da Ludwig van Beethoven nei Quaderni di conversazione)

La Nona Sinfonia in Re minore per soli, coro e orchestra, op. 125 di Ludwig van Beethoven, nota come Sinfonia corale, dedicata al Re di Prussia Federico Guglielmo III, viene realizzata dall’artista, ormai completamente sordo, tra il 1818 e il 1824 e eseguita per la prima volta venerdì 7 maggio 1824 al Theater am Kärntnertor di Vienna. Ultima sinfonia che rappresenta la sublimazione dell’arte del compositore, un’elaborazione complessa, dove il gioco di materiali diversi, supera lo schema sonatistico dei due temi contrapposti, moltiplicando i livelli di contrapposizione.

L’opera è costituita dai quattro movimenti: il primo: Allegro ma non troppo, un poco maestoso; il secondo, uno Scherzo: Molto vivace / Presto; il terzo: Adagio – molto e cantabile in si bemolle maggiore – Tempo Primo – Andante Moderato – Adagio – Lo Stesso Tempo; e, infine, il quarto: Presto, in fa maggiore, Allegro assai, Alla marcia, in re maggiore, Recitativo per baritono: O Freunde, nicht diese Töne (Amici, non questi suoni), in fa maggiore – Coro: Freude, schöner Götterfunken (Gioia, bella scintilla divina), Allegro assai, in re maggiore.

Il primo movimento è una trasformazione della tradizionale forma sonata, in cui i temi si presentano a gruppi, fornendo una riserva di elementi per l’elaborazione, l’esposizione e lo sviluppo. Il secondo non è il tradizionale tempo lento, ma uno Scherzo, che si contrappone al movimento precedente, dal tono cupo, tempestoso e drammatico con un turbinio danzante e gioioso. Successivamente ai due tempi movimentati, il terzo, diventa un’oasi lirica, che introduce l’elemento della cantabilità, attraverso due temi intensi e espressivi di dolore e contemplazione.

Ma è nell’ultimo movimento, che il canto trova il suo sfogo e si materializza: ecco l’Ode di Friedrich Schiller trovare, finalmente, posto nella Nona Sinfonia. Beethoven riesce così a coronare un antico desiderio, ovvero musicare l’Ode Alla gioia. Il compositore ne fa un libero arrangiamento, utilizzando solo una parte delle strofe e omettendo alcuni versi, per motivi prettamente metrici, ma soprattutto politici. In un tripudio musicale, quest’ultimo movimento, vede fuse insieme quattro componenti caratteristiche dell’ultimo stile beethoveniano: il canto, la danza, la variazione e la fuga.

Rielaborando il testo di Schiller, Beethoven ottiene una sceneggiatura drammatica che ci pone davanti alla Gioia, incarnazione della madre nutrice che abbraccia tutta l’umanità e prepara il ricongiungimento con il padre. Un messaggio di libertà e fratellanza universale, che recupera da Schiller l’ideale di una nuova società. Per il poeta tedesco, seguace di Kant, lo scopo dell’arte era quello di indirizzare l’umanità verso un nuovo ordine sociale, una nuova forma di armonia e di pace permettendo il libero sviluppo di tutte le potenzialità umane. Abbracciando questo paradigma utopico Beethoven, nella Nona, riesce a dare una risoluzione allo scetticismo e ai laceranti conflitti caratterizzanti le sue tante opere, mediante immagini idealizzate, proiettate nel futuro. La complessa struttura musicale della Sinfonia, data anche dalle sottili correlazioni tematiche tra i primi tre movimenti e il Finale, diviene un vero percorso drammaturgico, una visione cosmica, un percorso dalle tenebre alla luce, rilevazione di una essenza etica, oltre che estetica: «Abbracciatevi, moltitudini! Questo bacio vada al mondo intero! Fratelli, sopra il cielo stellato deve abitare un padre affettuoso […] Gioia si chiama la forte molla che sta nella natura eterna. Gioia, gioia aziona le ruote nel grande meccanismo del mondo. Essa attrae fuori i fiori dalle gemme, gli astri dal firmamento, conduce le stelle nello spazio, che il cannocchiale dell’osservatore non vede.»

L’esortazione dei versi di Schiller, musicati da Ludwig van Beethoven, è un incipit ripreso nel 1902 da un gruppo di giovani artisti, provenienti dai vari campi dell’arte, per la XIV mostra della Secessione viennese, interamente dedicata al genio titanico della musica, in occasione del 75° anniversario di morte. Insieme al pittore Gustav Klimt esaltano l’ideale della Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale teorizzata da Wagner mirando ad avvicinare musica, arti visive e poesia, nella fusione completa di arte e vita.

L’esposizione allestita presso il palazzo della Secessione di Vienna, viene curata dall’architetto del gruppo Joseph Hoffmann, nei minimi particolari, dagli arredi alle decorazioni, fino alle opere esposte dei vari artisti.  Al centro del salone d’entrata, troneggia un monumento policromo di avorio, marmo, bronzo e pietra raffigurante l’Apotesi di Beethoven di Max Klinger. Lo scultore riprende l’immagine nietzschiana del Prometeo liberato, per simboleggiare che solo un superuomo come Beethoven, riesce a riscattare la tragica esperienza terrena attraverso l’arte.

Una delle tre navate in cui viene modulato l’edificio è dedicata interamente al Fregio di Klimt: una narrazione allegorica di trentaquattro metri, sviluppata su tre pareti, con temi ispirati alla Nona sinfonia. Diviso in tre parti, il Fregio rappresenta il lungo viaggio dell’individuo, alla ricerca della felicità tra le forze del bene e del male: L’anelito alla felicità si scontra con le Forze ostili e trionfa con l’Inno alla gioia, placandosi nella poesia.

Nella prima parte l’umanità debole trascinata dai desideri e dalle passioni cerca un’ancora di salvataggio, di riscatto: prega il cavaliere armato, ritratto da Klimt con i lineamenti dell’amico musicista Gustav Mahler, che si prepara spinto dalle suppliche esterne e dai suoi sentimenti di compassione e orgoglio a superare le ostilità delle forze avverse, con la sua armatura dorata. Ritorna così, quel concetto beethoveniano di pathos, riscontrato nella Patetica, che non viene completamente dominato, quel destino avverso che ritorna con i suoi colpi nel corso della vita. La seconda parte rappresenta le forze ostili, il gigante Tifeo, con la testa di scimmia e il corpo di drago, contro il quale perfino gli dei combatterono inutilmente; le sue figlie, le tre Gòrgoni: la malattia, la follia, la morte. La volontà e la lussuria, l’eccesso. L’angoscia che rode. In alto le affezioni e i desideri degli uomini che volano via. Il cavaliere lotta per affermare il regno dell’arte. Infine, nella terza parte, il desiderio di felicità si placa nella poesia. Le arti ci conducono nel regno ideale dove possiamo trovare la pace, la felicità, l’amore assoluto. Un coro di angeli canta l’Inno alla gioia. Ecco che il cavaliere disarmato, Mahler, ossia la musica, si fonde in un abbraccio con una donna che simboleggia la poesia, il testo letterario, l’ode di Schiller, quindi entrambe le figure unite insieme nudi, spogliati da ogni contaminazione terrena, si elevano verso l’alto, in un abbraccio al mondo intero, sotto l’albero della vita, tra il sole e la luna, il giorno e la notte.

Il giorno dell’inaugurazione, con l’esecuzione dell’Inno alla gioia, diretta dal compositore Gustav Mahler si raggiunge la perfetta sinestesia, in un tripudio musicale dove l’ultimo movimento di Beethoven, diventa un messaggio di libertà e fratellanza rivolto al mondo intero.

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