di Salvatore Sclafani
Il ventennio fascista (1922-1943) mostra la sostanziale assenza di una politica culturale che non sia concepita in funzione della mera esaltazione del regime e dei suoi valori. Il meccanismo della propaganda incoraggia i compositori a un impegno artistico in grado di supportare lo spirito della “rivoluzione fascista”, priva di una reale proposta di contenuti e basata piuttosto su posizioni di ostracismo, xenofobia, e di esaltazione delle glorie di un passato da emulare e far rivivere. Fra i motivi principalmente sostenuti dalla gerarchia fascista spiccano i luoghi comuni di un verismo ormai vetusto.
Pietro Mascagni (1863-1945), convinto sostenitore del fascismo, rappresenta pienamente le priorità della dittatura in ambito culturale. La sua opera Nerone (1935), esaltata dal regime, incarna la propaganda dell’epoca, e rinforza (o inventa talora) una continuità tra il passato imperiale di Roma e il presente imperialista ricercato e inseguito da Mussolini.
Tuttavia, la mancanza di un carattere programmatico nelle scelte del regime in campo musicale consente ai compositori di esprimersi in modo relativamente autonomo. Contrariamente a ciò che avviene nella Germania nazista, il fascismo italiano non adotta inizialmente in modo sistematico politiche particolarmente restrittive o di censura. Se in un primo momento il volto del fascismo appare dunque più tollerante (o semplicemente meno capace di attuare un’efficace politica di repressione), in seguito la dittatura accrescerà gradualmente e in modo significativo il suo controllo capillare sulle manifestazioni artistiche e musicali: ciò è testimoniato ad esempio dalla Mostra del ‘900 musicale italiano, prima rassegna di musica strumentale contemporanea di compositori italiani (1927), dalla creazione, nel 1930, della Corporazione dello Spettacolo, e dalla nascita, nel 1935, dell’Ispettorato del Teatro. E ancora, fra gli anni Trenta e Quaranta, le sorti del Festival Internazionale di Musica di Venezia, fondato nel 1930, testimoniano la progressiva chiusura del fascismo in materia culturale. Nonostante la sua iniziale risonanza internazionale, grazie a un cartellone che include grandi compositori stranieri dell’epoca, fra cui Béla Bartók, Alban Berg, Zoltán Kodály, Paul Hindemith, Darius Milhaud, Igor Stravinskij, Arnold Schönberg, a partire dal 1939 il Festival vedrà una programmazione sempre più sporadica.
Tale politica di chiusura è ulteriormente esacerbata dall’istituzione delle leggi razziali nel 1938, che escludono dal teatro lirico tutti i lavoratori “di razza ebrea”. Inoltre, con lo scoppio della seconda guerra mondiale, l’esecuzione in Italia di musiche provenienti da paesi nemici è limitata o addirittura vietata: è il caso di opere sovietiche, inglesi e francesi, mentre vengono preferiti gli interpreti e i compositori dell’Asse.
I compositori italiani attivi durante la dittatura possono essere idealmente raggruppati in due blocchi fondamentali: in ordine cronologico, la Generazione dell’Ottanta, rappresentata da Franco Alfano, Alfredo Casella, Gian Francesco Malipiero, Ildebrando Pizzetti e Ottorino Respighi, e i più recenti Luigi Dallapiccola, Giorgio Federico Ghedini e Goffredo Petrassi.
Gli esponenti della Generazione dell’Ottanta mostrano un posizionamento controverso di fronte al fascismo. Anche se i loro lavori evidenziano una certa autonomia intellettuale, essi non appaiono incompatibili col regime, rivelando talvolta nei contenuti anche un certo conformismo. È il caso di composizioni che celebrano la politica imperialista, come il “mistero in un atto” Deserto tentato (1936-37) di Casella, dedicato a Mussolini, o di opere che si ispirano ai motivi storici della Roma antica e dello splendore dell’impero romano: ad esempio, Giulio Cesare (1934-35) e Antonio e Cleopatra (1936-37) di Malipiero, Lucrezia di Respighi (1936) e Orseolo (1933-35) di Pizzetti, opera commissionata dallo stesso Mussolini.
Allo stesso tempo, e in particolare prima degli anni Trenta, il linguaggio di tali compositori mostra un’importante carica innovativa nella sua reazione contro il verismo e una marcata versatilità che spazia dall’internazionalismo modernista al recupero della trazione musicale italiana tramite il ricorso a elementi mutuati dal canto gregoriano, dalla modalità, e dal repertorio strumentale del Seicento e del Settecento.
Dallapiccola, Ghedini e Petrassi sviluppano, in un primo tempo, elementi comuni alla generazione precedente, come i modi antichi, il canto gregoriano e la tradizione vocale e strumentale italiana barocca e prebarocca.
I primi due si orienteranno poi verso la dodecafonia, attribuendo alla musica un ruolo di opposizione civile e morale: i Canti di prigionia (1938-41) per voci miste e strumenti di Dallapiccola, realizzati alla vigilia dello scoppio della guerra, esprimono l’indignazione del compositore per l’istituzione delle leggi razziali ed esaltano il tema della libertà; l’opera Re Hassan (1939) di Ghedini, animata da un profondo impegno etico, denuncia l’ideologia tirannica e militarista.
Anche se inizialmente Petrassi fa parte dell’Ispettorato del Teatro e cerca di conciliare il ruolo di creatore con quello di burocrate, la guerra e la conseguente devastazione sociale e umana che essa comporta rappresenteranno momento di riflessione e punto di partenza per la sua produzione dopo il ventennio: ne è un esempio l’opera Coro di morti (1941) per coro maschile e strumenti.
Nel complesso, se la produzione di questi compositori rivela delle posizioni contrastanti, talvolta ambigue e perfino disposte a un clin d’œil al regime, essa esprime tuttavia una sorta di aristocratico distacco e utilizza linguaggi e simboli troppo eterogenei e complessi perché vi si possa effettivamente riscontrare una reale adesione al fascismo.
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