di Alessandro Nesti
Quarant’anni di carriera festeggiati il 3 Ottobre in Piazza del Popolo a Faenza, nel corso delle giornate promosse dal “MEI”, il Meeting per le Etichette Indipendenti.
Una piazza gremita (nel rispetto delle norme di sicurezza) ad attendere il ragazzaccio del rock italiano che si precipita sul palco e travolge i fan accorsi numerosi con un’onda di energia da far invidia ai ventenni. Quaranta minuti di rock puro al 100% con una scaletta che spazia dagli ultimi successi del cantautore fiorentino, quali “Gigante”, in gara a Febbraio durante il festival di Sanremo, e “Picnic all’Inferno”, per poi volgere lo sguardo al passato con pietre miliari come “Dea Musica” e “Toro Loco”.
Il pubblico è ora in autentico delirio, ora ammaliato dalla gestualità sinuosa e ipnotizzante di Piero Pelù, accompagnato dai Bandidos nella loro più recente formazione: Alessandro “Finaz” Finazzo alla chitarra, Dado “Black Dado” Neri al basso e Luca “Luc Mitraglia” Martelli alla batteria.
Ricevuto il premio alla carriera, Piero Pelù ha dato a tutti i presenti una grande lezione di civiltà, ricordando l’importanza delle manifestazioni promosse dai ragazzi di “Fridays for Future” per la salvaguardi del pianeta.
Tematiche ambientali, situazione del mercato discografico e liceità del linguaggio artistico sono alcuni tra i temi affrontati durante la presente intervista per TGmusic.it.
A Tal proposito ringraziamo Piero Pelù per la sua gentile disponibilità.
Sabato sera al “MEI” di Faenza hai ricevuto il premio per i quarant’anni di carriera. Se tu avessi la macchina del tempo e potessi tornare a quarant’anni fa, al momento dell’esordio, cosa diresti al Piero degli inizi?
Gli direi di continuare a credere nel suo sogno, e di studiare un po’ di più.
Per “studiare un po’ di più” intendi la musica, la letteratura o altro?
Studiare tutto. Tutto serve, perché tutto si potrà poi tradurre in buone canzoni.
Tu hai citato spesso come tue prime influenze gli Stooges, i Clash, i Sex Pistols, gruppi che sono considerati gli iniziatori del movimento punk, nato in Inghilterra a metà degli anni Settanta da sentimenti di protesta e anticonformismo. Oggi, nel 2020, per cosa bisogna protestare? Per cosa si deve lottare?
Innanzitutto si deve lottare contro l’indifferenza; e c’è bisogno di lottare contro l’ignoranza, perché è quella che ci può sotterrare tutti. E poi lottare anche per l’ambiente, come fanno i ragazzi di “Fridays for future”, che proprio nella giornata di domani saranno nelle piazze per il “Climate Strike”, lo sciopero per il clima (sulla pagina Facebook di Piero Pelù, poco prima della realizzazione di quest’intervista, è stato reso pubblico un video nel quale il rocker esorta a partecipare alla manifestazione per la salvaguardia del pianeta n.d.r.). Riuscire a impegnarsi su questi tre fronti e tradurli in un mezzo per fare qualcosa di creativo per sé e per gli altri, è già un grandissimo obiettivo.
I cambiamenti climatici e il rispetto per l’ambiente sono qualcosa che ti sta particolarmente a cuore. Il primo singolo estratto dal tuo ultimo album “Pugili fragili”, si intitola infatti “Picnic all’Inferno”, e ha come tematiche fondanti il surriscaldamento globale e l’inquinamento. Hai inserito nel brano campionamenti della voce di Greta Thunberg, la ormai celebre e giovanissima attivista svedese. Quest’ultimo elemento mi ha fatto pensare allo stile di composizione di un gigante della musica rock mondiale, quello di Roger Waters e dei suoi Pink Floyd. Si può allora dire che il mondo anglosassone abbia come portabandiera dei diritti umani e delle tematiche ambientaliste Roger Waters, l’Italia invece ha Piero Pelù.
(Ride n.d.r) Ti ringrazio per il paragone, non potevi farmi un complimento migliore. Considero Roger Waters un maestro assoluto di musica, ma anche di impegno, adoro il suo lavoro e mi piacerebbe tornasse a far parte dei Pink Floyd.
Il mio impegno per l’ambiente è di lunga data, la prima canzone che ho scritto su queste tematiche risale al 1987 e fa parte, col titolo “Peste”, dell’album “Litfiba 3” pubblicato nel 1988; poi nel 2002 scrissi “Stesso futuro”, inclusa nell’album (solista n.d.r.) “U.D.S. – L’uomo della strada”; e nel 2016 “Intossicato” per l’album “Eutòpia” (di nuovo con i Litfiba. A queste tre tracce sono da aggiungere la già menzionata “Picnic all’Inferno” e “Canicola”, entrambe incluse nell’ultimo album da solista di Piero Pelù, “Pugili fragili” n.d.r.).
Ma soprattutto cerco di dare il mio esempio nella vita di tutti i giorni, raccogliendo i rifiuti ogni volta che posso nei luoghi dove mi reco, cercando di lasciarli in uno stato migliore di quello in cui li ho trovati: tutto questo prende forma in un progetto che si chiama “Clean Beach Tour”, al quale invito tutti a partecipare nelle prossime edizioni.
L’ultima tappa di questo tour ha toccato lo Jonio nello scorso agosto.
Esattamente, la penultima è stata in Friuli, prima ancora a Sanremo (durante lo svolgimento del festival omonimo n.d.r.), e la primissima in assoluto alla Spiaggia della Feniglia, in Toscana.
Restando nell’ambito dei grandi nomi della musica rock, c’è un altro artista che tu hai nominato spesso e che citi in un altro brano tratto ancora una volta dall’album “Pugili Fragili”: in “Stereo Santo” dici ‹‹…siamo quelli che mangiamo pipistrelli e poi voliamo fino all’alba…›› alludendo al celebre episodio, o per meglio dire incidente, che ha reso Ozzy Osbourne noto in tutto il mondo. Adesso però Ozzy ha la malattia di Parkinson, non riesce più a fare tour, Eddie Van Halen, altra colonna portante dell’hard rock, ci ha lasciati due giorni fa per un cancro alla gola a soli 65 anni. Come vedi tu il futuro del rock? Come sarà il rock quando questi giganti non ci saranno più?
Questi che tu hai nominato sono giganti che hanno seminato molto bene, oggi abbiamo una nuova generazione di rocker che sta andando avanti alla grande, li potremmo chiamare “nuovi eroi”: voglio ricordare Jack White (ex The White Stripes n.d.r.) in testa a tutti, poi gli U2, che godono di ottima salute nonostante alti e bassi. Aggiungerei i Royal Blood e i Muse, e tantissime altre band molto valide.
Ozzy, per tutte le esperienze che ha avuto e tutte le sostanze che ha assunto, si può definire un miracolato. Nonostante questo, ho assistito al suo concerto al “Firenze Rocks” due anni fa ed è stato strepitoso.
Eddie Van Halen ci ha lasciati troppo presto, me ne rincresce molto, perché probabilmente avrebbe potuto raccontarci ancora qualcosa di molto interessante.
Ma per quanto riguarda la nuova generazione del rock, c’è, è potente e sana. In Italia purtroppo se ne sente parlare poco perché gli FM (le emittenti radiofoniche n.d.r.) sono assolutamente stitici con il rock, ma anche nel nostro Paese ci sono tante valide realtà.
Visto che siamo entrambi di Firenze e Firenze è la culla della lingua italiana, ti chiedo: come mai la scelta di cantare quasi tutti i tuoi brani in Italiano, in un genere musicale che viene dal mondo angloamericano?
Molti ragazzi si fanno questa domanda quando iniziano a scrivere i loro primi pezzi: scrivere in Inglese o in Italiano? Dal momento che l’Inglese sta entrando sempre più nelle nostre vite…
Io ho sempre pensato, fin dall’inizio della mia carriera, che sia giusto che ognuno si esprima nella lingua del Paese dove vive e mangia. C’è un vecchio modo di dire “parla come mangi”, che ritengo sempre valido.
Nel caso un artista voglia tentare fortuna a Londra, allora credo sia giusto cantare in Inglese, ma dal momento che scrive e opera in Italia, il mio consiglio è di farlo in Italiano.
Un’altra soluzione può essere quella di fare le doppie versioni: se uno veramente crede di avere delle possibilità anche all’estero, perché non fare la versione in Inglese di una propria canzone? E avere quindi la “English version” e la “Italian version”.
Secondo te si dovrebbero aggiornare i metodi di valutazione dei successi discografici? Oggi, con la pubblicazione di album e singoli su piattaforme online e lo streaming, fare un disco d’oro è semplicissimo, i dischi di platino sono più facili da conseguire. Ernia, giovane artista milanese che è stato premiato sul palco del “MEI” prima di te nella serata di Sabato 3 Ottobre a Faenza, ha dichiarato recentemente in un’intervista ‹‹La mia reazione quando un mio album diventa disco d’oro è “Bene.”, basta, nient’altro››.
Non si rischia che tutta questa facilità sciupi un po’ il successo e lo faccia diventare banale, soprattutto per le giovani generazioni?
Non conosco molto bene Ernia, ma mi fa piacere che sia ancora possibile fare dischi d’oro e dischi di platino. Ritengo giusto che ognuno reagisca ai propri traguardi nel modo che più ritiene opportuno e viva il proprio rapporto col successo come preferisce. L’importante è che il mercato discografico abbia linfa vitale per andare avanti, altrimenti rischia di implodere.
Lo dice la formula stessa, il mercato discografico è in primo luogo un mercato, e se al mercato non ci va più nessuno, il mercato chiude: è una conseguenza naturale. Faremmo tutti altro, oppure probabilmente produrremmo solamente singoli, non più album, con produzioni sempre più ristrette.
La musica e il mercato della musica sono due realtà ben distinte, che possono coesistere, ma al tempo stesso ‹‹la musica non si arresta››: è un verso che appartiene al mio brano “Stereo Santo”, che hai citato prima. La musica non si arresta, a prescindere. Ben vengano i dischi d’oro, ma la musica deve andare avanti lo stesso.
In questi giorni il mondo del rap italiano è stato sconvolto da una polemica per alcuni versi contenuti nel nuovo disco di Emis Killa e Jake La Furia, accusati di istigazione al femminicidio. I due artisti si sono difesi rivendicando una certa libertà di linguaggio al genere rap e alla musica in generale, che è in primo luogo, forma artistica: se il rap parla della strada, ci si esprime con il linguaggio della strada.
Senza entrare nella polemica, tu che hai, e cito una tua intervista in cui parli del tuo ultimo album, “Pugili fragili”, ‹‹coniugato il rispetto in tutte le sue forme››, dalle già citate “Picnic all’Inferno” e “Canicola” legate a tematiche ambientali a “Cuore matto” e “Nata libera” dedicate alla lotta contro la violenza sulle donne, passando per “Fossi foco”, che tratta della tolleranza verso qualsiasi forma di diversità, cosa pensi del linguaggio dell’arte? Quanta libertà deve avere e dove invece deve essere, diciamo, sorvegliato?
L’arte è giusto che sia libera, augurandosi che l’artista mantenga quella dignità che lo fa essere artista, e che fa sì che un artista sia una persona speciale, non un bieco traduttore delle espressioni peggiori dell’umanità.
Per fare un esempio: Ugo Ojetti, che è stato una figura molto importante per il giornalismo in Italia, pubblicò, mi pare sulla “Domenica del Corriere”, supplemento illustrato del “Corriere della Sera”, una vignetta di proprio pugno che mostrava un uomo squartato da una bomba, allo scopo di raccontare gli orrori della Prima Guerra Mondiale. In quel caso lui ha utilizzato un’immagine forte per condannare l’orrore della guerra.
L’arte ha un suo ruolo sociale quando racconta gli aspetti negativi della realtà per esorcizzarli, condannarli, farli comprendere e superare. In caso contrario è semplicemente provocazione di bassa lega.
Secondo te il rock risente più di altri generi musicali della lontananza dal pubblico che stiamo vivendo in questo momento così particolare?
Sicuramente trattandosi di un genere molto coinvolgente, dove il pubblico ai concerti si diverte praticando il pogo e l’headbanging e dove tutti cercano di arrivare alla transenna di fronte al palco, che rappresenta il grande traguardo, il rock può soffrire.
Ma spero di riuscire a esibirmi nelle prossime date di Dicembre, che saranno in teatro, dove il pubblico sarà distanziato, ma potrà alzarsi e ballare sul posto assegnato, visto che è consentito. Tutto purché la musica continui a circolare, questo è fondamentale. È un imperativo culturale e sociale dal quale non si può prescindere, e questo i politici devono capirlo.
L’ultima domanda è: hai un tuo rituale prima di salire sul palco?
Nessuno. Mi basta stare insieme agli altri e bermi un po’ di rum.
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