di Ruben Marzà
Fabrizio Salvatore (56 anni, nato a Salerno ma cresciuto a Roma) è cofondatore, insieme ad Alessandro Guardia, dell’etichetta Alfa Music, la cui produzione, da sempre focalizzata sul jazz italiano e sulla musica popolare, negli ultimi anni si è arricchita di nuovi progetti e nuove prospettive. Il nostro incontro ha rappresentato una preziosa occasione per ripercorrere trent’anni di storia del complesso rapporto tra registrazione, produzione e promozione musicale, dalle audiocassette allo streaming.
Alfa Music ha da poco festeggiato i 30 anni di attività, prima come sala di registrazione, poi come etichetta. Com’è cambiato il mondo discografico in questo periodo?
Questi 30, quasi 31 anni rappresentano un bel pezzo della nostra vita. Ci tengo a ricordare che Alfa Music nasce dall’amicizia e collaborazione con Alessandro Guardia; e proprio dalle prime lettere dei nostri nomi (Al e Fa) deriva il nome Alfa Music, che inizialmente si chiamava Alfa Recording. Eravamo studenti alla scuola di musica di Testaccio, e non avevamo idea di quali cambiamenti avrebbe conosciuto il mondo della discografia: abbiamo vissuto pienamente il passaggio dai supporti analogici (nastri e vinili) a quelli digitali (il cd audio). In queste fasi è stato importante instaurare un confronto continuo coi nostri distributori e con l’associazione ADEIDI (che raccoglie una trentina di etichette jazz indipendenti), ma anche coi referenti delle grandi piattaforme, da Spotify ad Amazon music. Quello che abbiamo sempre tentato di fare, inoltre, è far capire ai nostri ascoltatori che per godere di brani jazz o di musica popolare, magari un po’ più lunghi dei canonici 3 minuti, occorre un ascolto attento: bisogna ritrovare l’abitudine, il rito dell’ascolto, come quando si ascolta musica dal vivo. Cerchiamo poi di porre la stessa attenzione in tutti gli step produttivi, dalla selezione in entrata fino alla promozione: questo aspetto, per fortuna, è stato facilitato dallo sviluppo dei social, tramite i quali possiamo comunicare in maniera più rapida.
È di pochi mesi fa la notizia che le vendite del vinile hanno superato quelle del cd. C’è stato un ritorno a vecchie abitudini di ascolto?
C’è stato un periodo, a fine anni Novanta, in cui lavoravamo molto con il Manifesto, che usciva in edicola con un cd allegato; il vinile era in pieno declino, e con esso si stava perdendo l’abitudine degli audiofili, il rito del comprare il disco e goderselo in maniera rilassata. Ora, finita l’era del cd, paradossalmente è il vinile che sembra tornare alla ribalta, l’intero suo processo produttivo si sta rigenerando: tutto questo, specie all’inizio, anche grazie alla crescita del rap, essendo il vinile molto utilizzato dai dj; di conseguenza sono tornati accessibili, anche a costi moderati, gli impianti per riprodurlo. Ma oltre al vinile è tornato anche l’ascolto su nastro, il famoso ampex di ¼ di pollice, senza dimenticare le musicassette: questo perché le vibrazioni possibili solo con l’ascolto analogico si sposano molto bene con il jazz, ma anche la classica o il progressive rock.
Oltre al jazz italiano contemporaneo, al momento vi occupate anche di canzone d’autore e diclassica cameristica. A cosa si deve questa scelta?
Le due sezioni principali, jazz ed ethno-world, nascono direttamente dalle nostre passioni e dai nostri studi: i primi due dischi, risalenti al 2000/2001, videro protagonisti da un lato il PJ Trio (con ospite il grande Richard Galliano), dall’altro i Tamburi del Vesuvio. Poi cominciarono ad arrivare tante proposte, anche molto diverse. Aprirsi indiscriminatamente a tutti i generi sarebbe stato assurdo e poco rispettoso, ma gradualmente abbiamo iniziato ad aprire altre linee: per prima Alfa Projects, dedicata a produzioni di confine tra jazz ed ethno–world con incursioni di elettronica, aperta sia a giovani che a nomi consolidati; poi, avendo sempre avuto il pallino per il pop e la forma canzone, Pop & Roll, dedicata alla canzone d’autore, che ci ha regalato discrete soddisfazioni, con due nostri artisti premiati a Musicultura (Maria Pierantoni Giua e Francesco Cataldo). Abbiamo consolidato anche una piccola linea dedicata alla musica classica cameristica, con piccoli gruppi che possiamo ospitare nel nostro studio; infine, pochissimi anni fa, si è concretizzato l’interesse verso quello che negli Stati Uniti è chiamato smooth jazz, una tradizione che arriva dal jazz californiano degli anni Ottanta, un approccio più melodico e orecchiabile che viene oggi esplorato da tanti musicisti affermati.
Dal punto di vista culturale ed economico, credi che in Italia il jazz sia rimasto un fenomeno maggiormente “di nicchia”, rispetto al contesto americano o nord europeo?
Da un punto di vista di gestione e diffusione promozionale, di management, sicuramente in Italia non siamo tra i primi come cultura e preparazione, rispetto alle zone che hai citato, Canada incluso. Sono paesi in cui il jazz e le sue derivazioni costituiscono un elemento culturale importante e storicamente molto accreditato – un po’ quello che per l’Italia è la lirica. Negli USA il jazz nasce da un’esperienza popolare, lo swing come musica da ballo è l’equivalente del nostro liscio. Nonostante questo, l’Italia è sempre stata protagonista nel jazz. Negli ultimi 20 anni, poi, la nascita delle grandi scuole di musica (prima quella di Testaccio, poi Siena Jazz, Mississippi e Saint Louis a Roma, Musica Oggi di Enrico Intra a Milano) e l’inserimento del jazz nei conservatori hanno determinato una crescita notevole: abbiamo una generazione di giovani musicisti tecnicamente molto dotati, che non ha nulla da invidiare al resto del mondo.
Si può dire quindi che il gap è stato in larga parte colmato?
Da un punto di vista artistico e creativo, direi di sì: sono nate tante rassegne, e anche ai piani alti si sono finalmente accorti che in Italia c’è spazio per qualcos’altro rispetto a classica e lirica. Ma sul piano, economico e commerciale, purtroppo, la situazione è molto diversa. La vendita dei dischi è in grande affanno, solo ai concerti si continua a vendere discretamente. C’è molto da imparare a livello organizzativo e amministrativo, dobbiamo saper gestire e promuovere i nuovi protagonisti, piuttosto che rincorrere i grandi nomi stranieri per logiche di biglietteria: privilegiare l’aspetto culturale ed educativo rispetto a quello dell’intrattenimento.
Quale consiglio daresti a chi volesse intraprendere un’attività di registrazione o produzionediscografica?
Bella domanda [ride]. Trent’anni fa in molti ci prospettavano una situazione non facile: “fate attenzione, lo studio di registrazione non ha un futuro, vivono solo le grandi strutture…”. Oggi, sono sopravvissute le piccole–medie strutture come la nostra, a gestione familiare, che non devono fronteggiare grandi spese di manutenzione, anche grazie all’avvento del digitale. Si è sviluppato molto l’home recording, che malgrado la qualità crescente non garantirà mai i risultati dello studio, dove ci sono a disposizione mezzi e professionisti: è una possibilità molto intrigante dal punto di vista creativo, ma non può sostituire la produzione in studio. Se dovessi dare un consiglio, suggerirei innanzitutto di creare un team di lavoro, una squadra dove costruire competenze nei diversi ambiti. Oggi è importante essere capaci di operare in tanti ambiti, da soli come in team: le nostre entrate si basano su una somma di attività editoriale, discografica, management. Altrettanto importante è essere informati sugli aspetti più noiosi e faticosi, legati al diritto d’autore e alla dimensione fiscale e burocratica. Oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, il sostentamento di un artista, e di conseguenza la sua libertà economica e creativa, non può che derivare dalla somma di tante competenze e attività, incluso l’insegnamento.
No comments