di Gabriele Cupaiolo
Alberto Triola, milanese, 53 anni, una laurea in ingegneria e un articolato percorso formativo in ambito musicale e teatrale, dal 2010 direttore artistico del Festival della Valle d’Itria, è il Sovrintendente della Fondazione Arturo Toscanini. Triola è conosciuto per la trasversalità della sua esperienza teatrale, sia in campo gestionale che artistico. Stabilmente impegnato in campo teatrale e musicale da quasi un trentennio, dopo aver maturato il proprio profilo professionale in quattordici stagioni al Teatro alla Scala, dal 2002 Alberto Triola si è distinto per significative esperienze al vertice di importanti teatri e festival italiani, quali il Festival dei Due Mondi di Spoleto, il Festival Monteverdi e il Teatro Ponchielli di Cremona, il Carlo Felice di Genova, il Comunale di Bologna, il Lirico di Cagliari, con stagioni di riconosciuti successi e programmazioni artistiche di apprezzata vivacità culturale, che segnano spesso la consacrazione di nuovi talenti vocali, registici e direttoriali. Negli ultimi anni è stato direttore generale del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino e presidente del Conservatorio “Nino Rota” di Monopoli. Nel corso della sua carriera ha lavorato a fianco di figure di riferimento del mondo musicale e teatrale, quali Alberto Zedda, Marco Tutino, Carlo Fontana, Gian Carlo Menotti, Paolo Arcà, oltre a Riccardo Muti e Fabio Luisi, con il quale condivide la guida artistica del Festival della Valle d’Itria.
Buonasera Maestro, è un onore poterLa intervistare. Proporrei di cominciare da qualcosa di piuttosto attuale, in tutti i sensi: recentemente, lo scorso 15 settembre, a Padova – presso Palazzo Bo – si è svolto il convegno ‘Musica e ambiente – Il ruolo delle istituzioni musicali nella crisi climatica’. Quali sono state le Sue impressioni al riguardo? Sappiamo che la sua prima laurea è in Ingegneria Civile per la difesa del suolo e la pianificazione territoriale.
È stato un piacere parteciparvi, le impressioni sono state molto buone: il tema dell’ambiente mi è caro da tempo immemore, fin da quando era appannaggio quasi esclusivo di studiosi e ricercatori del settore: adesso, fortunatamente, la sensibilità verso questioni del genere si è diffusa a macchia d’olio tra le persone, specie tra le generazioni più giovani – e non come vezzo di attualità, bensì come dibattito scaturito da un senso civico di profonda caratura. La domanda che sorge spontanea è: ‘c’entrano realmente le istituzioni musicali con l’ambiente, se si escludono le accortezze che dovrebbero riguardare la quotidianità di ciascun individuo?’. La risposta è sì. Già da un paio di anni La Toscanini si è allineata a politiche green e plastic-free (tramite uffici dotati di sistemi di domotica, utilizzo di carta riciclabile, politiche di risparmio energetico etc.), ma il dato fondamentale è, a mio avviso, che queste scelte empiriche scaturiscono innanzitutto da un obiettivo più assoluto, quella di rappresentare un modello di centro artistico e culturale inteso quale occasione qualificata di riflessione, incontro e condivisione. Qui la collettività si raduna per l’atto simbolico dello spettacolo musicale, ma, implicitamente, grazie alla complessità delle idee che la caratterizzano, allo stesso tempo sottopone e viene sottoposta ad una aristotelica catarsi del pensiero e delle emozioni, la quale dipana sentieri mentali vòlti all’appropriazione di specifici sistemi critici e dialogici: inutile dire che uno di questi vettori di pensiero segnala proprio il tema del rapporto fra l’uomo e l’ambiente. Scopriamo così, pian piano, che questo legame è da preservare con estrema cura, specie dopo aver – si spera – superato le criticità dell’emergenza pandemica; nata questa consapevolezza, è naturale che ad essere influenzate saranno sia le pratiche sociali che quelle individuali. Ne è prova l’originalità delle idee che sono scaturite in seno a La Toscanini. Qualche esempio? Stiamo lavorando a un progetto per cui ad ogni tot di miglia aeree percorse dai nostri artisti durante i loro viaggi intercontinentali, un albero verrà piantato a spese della Toscanini nel Parco della Musica su cui insiste la nostra sede. Ancora, abbiamo rinunciato a distribuire programmi di carta prima dei concerti (quanti se ne trovavano abbandonati alla fine dei concerti…!): al pubblico viene data ora la possibilità di accedere ad un programma ancora più ricco e dettagliato di prima, grazie al QR Code presente su unico foglio di carta (rigorosamente riciclata); oppure, da quest’anno siamo pronti a garantire agli abitanti dei comuni soci della Fondazione in provincia di Parma – a fronte di un numero di abbonamenti minimo – un servizio pullman gratuito, per accompagnare gli spettatori dal comune di residenza all’Auditorium Paganini, e viceversa. Si tratta di un piccolo esempio di mobilità sostenibile, per ridurre l’impatto degli autoveicoli in circolazione in occasione dei nostri concerti, non solo per dare un servizio in più al nostro pubblico. Sono convinto che i presenti in sala, ripensando successivamente all’esperienza vissuta, ricorderanno anche dettagli di questo tipo, i quali, a loro volta, permetteranno che la nozione di ‘rispetto ambientale’ possa inconsciamente insediarsi ancor più nella mente e nel cuore di ciascuno.
Il suddetto incontro pare coniugare due delle sue passioni: musica e preservazione del territorio. Si è dapprima laureato in Ingegneria Civile per la difesa del suolo e la pianificazione territoriale: come nasce la disposizione verso il mondo della musica?
Ammetto che le due passioni sono cresciute in parallelo, fin dall’infanzia: certo, come dicevo in precedenza, il fatto che oggi si percepisca maggiormente l’urgenza delle questioni territoriali e climatiche mi ha permesso di riflettere su questo connubio all’interno della mia pratica professionale. Tre anni fa, quando sono arrivato alla Toscanini, ho ad esempio subito notato la quantità di bicchieri di plastica che puntualmente trovavo nei cestini delle aree relax. Abbiamo fatto realizzare e distribuire a tutti i dipendenti e collaboratori delle borracce personalizzate, mettendo a disposizione dei dispenser di acqua naturale e frizzante per il riempimento dei contenitori individuali. Abbiamo eliminato i bicchierini di plastica del caffe, sostituendoli con quelli di carta. Col tempo l’azienda ha assimilato e prodotto automatismi che adesso rendono del tutto inaccettabili comportamenti prima trascurati: il pensiero collettivo è mutato, influenzato dalla presa di consapevolezza di ciascuno di noi. Sono molto felice di questi risultati, specie vedendo che sono frutto di una comprensione spontanea e naturale dei dipendenti, non di un’imposizione forzata.
Andando a ritroso, grazie al Suo lavoro (NDR: in qualità di direttore artistico, dal 2010 fino a quest’anno) il Festival della Valle d’Itria ha potuto godere del solito successo, nonostante le difficoltà legate all’emergenza sanitaria: c’è stata una particolare chiave per far riavvicinare il pubblico all’evento dal vivo?
Il Festival della Valle d’Itria è sempre stato – anche prima che ne divenissi direttore artistico – un luogo all’interno del quale si modellizza la capacità di trasformare il vincolo stringente della difficoltà (di qualunque tipo: ambientale, culturale, economica, logistica etc.) in opportunità di valore e di capacità inventiva. Questo titanico sforzo, reiterato dai vari direttori artistici fin dagli anni ‘70, ha prodotto un modello di festival ormai storicamente e strutturalmente stabilizzato, unico nel suo genere: penso che solo a Martina Franca si riescono a rappresentare, con un solo palcoscenico e con un contingente veramente minimo di tecnici a disposizione, tra le difficoltà legate alla logistica territoriale e con in tasca un budget molto limitato, tre diverse produzioni d’opera in tre giorni consecutivi. Naturalemnte è una prassi comune nei festival, che però possono contare o su diverse venues oppure su risorse tecniche e di personale incomparabilmente maggiori. Anche l’emergenza pandemica ha costituito un importante banco di prova: basti pensare ai divieti di assembramento e alle disposizioni in materia di distanza interpersonale (che impedivano la piena disponibilità dell’orchestra, nonché l’utilizzo del coro – quanto ne risentono soprattutto le opere del repertorio comico! – e la gestione degli intervalli), per via dei quali ci si è travati di fronte al dilemma dell repertorio teatrale cui attingere. SI è cercato di trasformare la crisi in opportunità, elaborando un programma che non fosse limitato dell’emergenza, ma, anzi, manifesto del periodo storico vissuto: la programmazione dell’edizione 2020-21, successiva al primo, duro lockdown, ha registrato ad esempio come punto unificante della proposta artistica una nuova produzione di Ariadne auf Naxos di Strauss – opera in atto unico, senza coro e con un organico orchestrale già pensato a ranghi molto ridotti dallo stesso Strauss. Ma la proposta era evidentemente carica di elementi simbolici, tutti i correlati del grande mito classico: il motivo, anche di valenza psicologica se non addirittura psicoanalitica, dell’abbandono di Arianna su un’isola deserta, preceduto dalla perdita dell’amato, il quale, intrappolato all’interno di un oscuro labirinto, ha lottato contro un mostro spaventoso e apparentemente invincibile; è stato immediatamente chiaro a tutti che il Minotauro poteva essere riletto come il terribile virus che stava terrorizzando l’umanità, così come Arianna diventava emblema della sofferenza del singolo e dell’intera collettività. Da qui scaturì l’idea di intitolare l’intero cartellone, completamente ripensato in pochi giorni, ed era già maggio: Per ritrovare il filo. Ma ci si presentarono altre questioni da risolvere. L’opera originale è in lingua tedesca, dunque avrebbe richiesto, in condizioni normali, la scritturazione di un cast madrelingua, ma in quel momento le frontiere erano chiuse. La storica versione ritmica in italiano mi sembrava improponibile e allora pensai alla realizzazione di una nuova edizione italiana. A chi avrei potuto chiedere, se non al più grande studioso di Richard Strauss? Alzo la cornetta, chiamo Quirino Principe – convinto di andare incontro ad un comprensibile rifiuto, anche considerati i tempi del preavviso – e propongo l’idea, che viene accettata con mio grande piacere e sorpresa. In meno di un mese fu fatto il lavoro, con i cantanti già alle prese con lo studio, man mano che il nuovo testo veniva realizzato. Il successo fu eclatante, sia per la proposta che per la sua realizzazione. Per quanto riguarda l’edizione 2021/22, ci siamo mossi in maniera simile: ancora sottoposti alle ben note limitazioni, sono stati scelti titoli che potessero richiamare ancora una volta le vicende contemporanee, ponendo stavolta l’accento sul tema dell’incomprensibilità del male e dell’inspiegabilità del dolore, senza però trascurare la fiducia nella rinascita; siamo partiti da La creazione di Haydn (che attinge alla fonte della Genesi, nonché del Paradiso perduto di Milton) e, passando attraverso la Griselda scarlattiana, siamo giunti al Winterreise di Schubert, convinti che fosse necessario trasmettere un duplice messaggio nel momento in cui si iniziava a vedere la luce in fondo al tunnel: l’essere umano, divenuto malinconicamente lo schubertiano viandante, in seguito alla decostruzione della sua normalità – il suo Eden, potremmo dire -, dovrà essere in grado di muovere i passi verso nuovi orizzonti di prosperità. Di qui anche il titolo del programma, Fiat lux. Anche quest’anno l’apprezzamento è stato davvero importante. Vede, il mestiere del direttore artistico non si esprime semplicemente nel mettere in fila proposte di per sé colte, interessanti – il che riuscirebbe a qualsiasi persona dotata di buon senso -: quel che conta davvero è sapersi mettere in ascolto del proprio tempo, non per inseguire le attese del pubblico ma per proporre un messaggio pregnante e coerente, ad alta valenza simbolica, in grado di sprigionare quella forza catartica cui facevo riferimento in precedenza.
Lei non è certo nuovo ad un lavoro di tipo dirigenziale: nel corso della carriera ha ricoperto, solo per citarne alcuni, i ruoli di direttore generale del Maggio Musicale Fiorentino, di direttore della Scuola dell’Opera Italiana, nonché di sovrintendente e direttore artistico de La Toscanini. Come giudica l’organizzazione e la solidità delle istituzioni artistiche italiane?
Da un punto di vista del sistema di produzione musicale e teatrale bisogna riconoscere che siamo chiamati ad operare in condizioni molto difficili: alcune scaturiscono da motivazioni di tipo storico-strutturale, altre da cause più recenti. Approfondisco la questione?
Certamente, vada avanti.
Per prima cosa, purtroppo anche nel nostro settore entra in gioco la politica, che – con le debite rare eccezioni, appare generalmente disinteressata nei confronti della vita culturale e artistica, se non a fini strumentali: questo avviene in primis a causa di una diffusa ignoranza, stricto sensu, che, per quanto profonda e radicata, è ormai incapace di destare scalpore, essendo la norma. Nel passaggio dal XIX a XX secolo la musica è stata pian piano estromessa – quasi con sprezzo – dal sistema educativo di base della scuola italiana, riducendosi ad essere considerata mero oggetto di studio personale, e specialmente destinato alle donne di casa, appannaggio delle classi benestanti. Questa ignoranza costituisce, dunque, per certi versi, un’eredità del passato; nel centro e nel nord Europa è, d’altro canto, una piacevole consuetudine vedere in sala esponenti della politica locale e nazionale, sia per l’opera sia per la prosa, o in occasione di concerti sinfonici, che frequentano il teatro per autentica passione e diletto. In Italia capita, in genere, solo in determinate situazione, e sempre di grande visibilità e valore per così dire mondano. Eppure l’articolo 9 della Costituzione riconosce il valore primario delle arti, delle scienze e della ricerca, ma questo non sembra aver permeato la consapevolezza delle classi dirigenti del Paese. Il gap con altri Paesi è evidente: basta osservare la percentuale di PIL che viene destinata alla ricerca e alla cultura. I sistemi di valutazione dei contributi pubblici sono poi complicati e cavillosi dal punto di vista burocratico, tali da mortificare il sistema produttivo, ingabbiandolo in maglie che non premiano chi opera meglio, bensì chi realizza di più in termini puramente quantitativi: ne consegue che anche le buone intenzioni dei più volenterosi rischino di dileguarsi miseramente. Nei teatri d’opera italiani vediamo in cartellone sempre gli stessi titoli: è vero che mettere in scena La Traviata è garanzia di un sicuro successo di botteghino, mentre più rischioso è mettere in scena, che so, un Serse di Haendel o un Billy Budd di Britten, ma è importante considerare la crescita del pubblico anche in termini culturali e generazionali, non solo di poltrone occupate. Il pubblico è di per sé intelligente, aperto, curioso, disponibile ad essere coinvolto attraverso progetti e percorsi culturali interessanti; ne ho esperienza diretta. La serialità, concetto industriale, conduce alla monotonia e alla ripetitività. Penso poi alla strutturazione dei contributi pubblici statali, organizzati secondo il modello del FUS; fino al 2017 ciascuna istituzione era finanziata annualmente, dunque era impossibile dar vita a progetti di ampio respiro con largo anticipo; ottenere la triennalità nella distribuzione dei fondi è stata una conquista di grande significato. Bisogna infine considerare i pregiudizi diffusi a livello di collettività: in Austria e in Germania i teatri possono contare sulla complicità del sistema familiare e scolastico, che valorizza la frequenza delle sale da concerto quale vera e propria prassi e consuetudine quotidiana; da noi permane lo stereotipo mortifero per cui andare a teatro, per molti, resta assimilabile a far parte di un rito sociale, a volte a un’incombenza che occorre assolvere perché “non si può mancare”. L’altro giorno, trovandomi alla Scala, ho sentito per caso un giovane padre che, indicando le persone eleganti che sfilavano all’entrata, diceva alle proprie bimbe: ‘vedete, questa è la Scala: ci vanno le persone vestite eleganti!’. Un messaggio del genere, espresso del tutto in buona fede, rischia di far associare l’evento teatrale ad una occasione formale della buona società, in cui il codice, che pure ha il suo senso di esistere, va a sostituire i contenuti emotivi ed intellettuali più essenziali.
D’altro canto, per parlare dei lati positivi, crescere professionalmente in Italia è una palestra che non ha paragoni in tutto il mondo. Capita di vedere colleghi, brillantissimi nel dirigere teatri e istituzioni europei, trovarsi in difficoltà in Italia: paradossalmente abituarsi alle difficoltà del Belpaese porta allo sviluppo di importanti competenze e abilità trasversali, le quali permettono di fronteggiare quel che agli altri appare del tutto ingestibile. Operare nel nostro Paese è, inoltre, un privilegio dal punto di vista della manifestazione culturale: sei chiamato ad operare in realtà che offrono naturalmente un patrimonio e una dimensione secolari, in grado di sostenerti e di ispirarti in quanto parti integranti dell’habitus e del vivere quotidiano. Quest’anno il concorso per direttori d’orchestra Toscanini è stato strutturato intorno all’opera italiana: dal momento che i dodici direttori selezionati avrebbero dovuto confrontarsi con Verdi, Rossini e Donizetti, abbiamo offerto loro due settimane di laboratorio full immersion: da mattina a sera hanno potuto non solo confrontarsi con importanti maestri e professionisti italiani, ma persino vivere vere e proprie esperienze di vita italiana: abbiamo organizzato gite in Appennino, visite presso una nota sartoria e un caseificio di montagna, un incontro con i preziosi manoscritti della Biblioteca Palatina, un giro in auto da corsa espressione dell’estro e della tecnica tipicamente italiani. È anche nell’incontro ravvicinato con l’italianità vastamente intesa che può essere ripensato persino il concetto di Belcanto italiano, sovente liquidato in uno stereotipo – come se esso si riducesse al connubio di melodia ed accompagnamento, calore espressivo e virtuosismo canoro. Rossini, Donizetti, Verdi non sono l’espressione stereotipata di un modo generalista e superficiale di intendere il patrimonio secolare del melodramma, bensì singolari e splendide individualità scaturite dalla storia di un popolo ricco di divergenze, peculiarità, singolarità, cui il mondo riconosce talento, fantasia e genialità. Noi diamo per scontata la quantità di bellezza e talento che ci circonda, cristallizzata in innumerevoli forme di espressione, ma ritengo sempre più necessario stimolare riflessioni approfondite sul valore e sul significato di questa onerosa e splendida eredità. Perché non vogliano essere soltanto uno sterminato museo, il più bello del mondo, ma un centro di produzione di idee e un laboratorio attivo, vitale e perfettamente sintonizzato sulla contemporaneità.
Insomma, lavorare in Italia è allo stesso tempo croce e delizia: speriamo che diventi sempre meno croce e più delizia.
Grazie per il suo tempo.
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