di Stefano Teani
Giorgio Battistelli è da molti anni considerato uno dei compositori più rappresentativi sulla scena internazionale. Autore molto prolifico, si distingue per la grande attenzione al teatro musicale, con una spiccata propensione per l’elemento gestuale. Vincitore di premi illustri quali il Premio SIAE e il Premio Abbiati, è stato insignito del titolo di Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres dal Ministero della Cultura Francese e nominato Commendatore dell’Ordine “al merito della Repubblica Italiana”. Inoltre, ha curato la direzione artistica di numerosi Ensemble e Festival apportando un contributo personale immediatamente riconoscibile, caratterizzato da un misto di lungimiranza, innovazione e qualità.
Nato ad Albano Laziale nel 1953, Giorgio Battistelli rappresenta un punto di riferimento per il mondo musicale italiano ed europeo. Diplomato in composizione con G. Bizzi presso il Conservatorio A. Casella dell’Aquila, ha poi fondato il Gruppo di Ricerca e Sperimentazione Musicale Edgard Varèse e il Gruppo Strumentale Beat 72. Ha frequentato i seminari di K. Stockhausen e M. Kagel a Colonia, ha collaborato con S. Bussotti e si è imposto sulla scena internazionale nel 1981 con Experimentum mundi, una “opera di musica immaginistica” (come da lui stesso definita) nella quale egli porta sul palcoscenico tutti i suoni del lavoro artigiano italiano eseguito direttamente da scalpellini, pasticceri, arrotini e altri. Numerose le commissioni e le residenze artistiche, dal Deutscher Akademischer Austauschdienst di Berlino alla Biennale di Monaco, l’Opéra National du Rhin di Strasburgo, il teatro Almeida di Londra. Attualmente direttore artistico del Festival Puccini di Torre del Lago e dell’Orchestra Haydn di Bolzano, ha già ricoperto la stessa carica per l’Orchestra della Toscana, la Società Aquilana dei Concerti, l’Accademia Filarmonica Romana, la Biennale Musica di Venezia e la Fondazione Arena di Verona.
Cominciamo dalle origini, qual è stata per lei un’occasione fondamentale per la sua vita e per la sua carriera?
Ricordo che un’esperienza importante è stata nel 1985 quando ho vissuto un anno a Berlino. Sono stato compositore ospite, abitavo nel centro della città e ho avuto così la possibilità di scrivere e di vivere l’attività culturale del luogo. Ho conosciuto artisti e compositori più grandi di me, mi sono sentito proiettato in una dimensione internazionale. Questo però accadeva quarant’anni fa, oggi sarebbe più difficile perché si è sviluppata di più questa dimensione globale. Il rischio è la globalizzazione del pensiero. Ricordo alcuni anni fa quando partecipai in commissione a un concorso internazionale di composizione d’opera a Londra. Ci presentarono più di 40 partiture provenienti da Cina, Cuba, Finlandia, Russia, Giappone, Nord America, Sud America. Ciò che mi colpì subito era che, ascoltandole, il margine di differenza l’una dall’altra era molto sottile, si assomigliavano tutte.
È per questo che riesce a essere un talent scout così efficiente? C’è una lunga lista di grandi artisti che ha scoperto lei.
Dipende, a volte incontro casualmente giovani talenti, altre volte approfondisco io personalità che mi intrigano. In realtà, quello che si definisce talent scout non è soltanto riferito al compositore, al direttore o al solista di 25 anni ma anche verso quelle persone non più giovani in cui la creatività si è un po’ assopita. Chiaramente ci vuole l’intuito di capire che hanno ancora qualcosa da dire. Faccio sempre l’esempio di Friedrich Cerha, compositore anziano che non si sentiva nominare da molto tempo. Non scriveva più, non aveva più attività creativa. Essendo io molto fissato con la necessità dell’attività creativa, a prescindere dall’età, decisi di commissionargli un brano, dandogli poi il Leone d’Oro. Come pensavo, lui si è sbloccato, ha rimosso quel blocco di iper-riflessioni e a 80 anni si è rimesso a comporre.
Per lei, nell’atto compositivo vero e proprio, quanto è importante l’aspetto della ricezione del pubblico? Si pone il problema di come reagirà lo spettatore?
Si tratta di un problema antichissimo, anche i grandi Maestri del passato hanno sempre tenuto conto del potere e delle attrattive di alcune combinazioni compositive, pensiamo ai crescendo rossiniani, ad alcune ripetizioni beethoveniane e alle divaricazioni timbriche di accordi molto acuti e gravi, alcuni lirismi di Schubert e Schumann, fino ad arrivare ad alcune rifrazioni armoniche di Wolfgang Rihm o a un tipo di dimensione eufonica di Kaija Saariaho. Ogni autore, nel momento in cui organizza una partitura, pensa anche al tipo di risultato, alla seduzione che quello che sta facendo può generare sul pubblico. Chiaramente è sempre una questione di equilibri; un atteggiamento dell’avanguardia del secondo dopo guerra era quello di manipolare continuamente il materiale, giustapponendolo, a cui poi è subentrata la necessità di una manipolazione anche dell’esperienza dell’autore.
Lei quindi pensa che tutti i compositori, anche quelli contemporanei più “ostici” per il pubblico, si pongano il problema della percezione?
Certamente non posso generalizzare. È evidente però che il lavoro di un compositore è stare continuamente in ascolto del proprio tempo, porre attenzione a quello che accade al di fuori di se stesso, non deve essere un ascolto autoreferenziale. La tecnica è importante ma a volte può diventare la seduzione di un cristallo… e l’esperienza dove la mettiamo? Talvolta viene penalizzata, invece l’emozione è importante, è un aspetto che esula dalla tecnica. Vedo che molti linguaggi in questo siano più avanti della musica, penso all’architettura che utilizza a volte dei colori o dei materiali che hanno un potere seduttivo maggiore allo sguardo. Lì non si rinuncia alla complessità ma si ricerca un carattere più piacevole, conciliante, che non significa prostituzione.
E cosa pensa di tutta questa “tecnica” così ostentata da molti autori contemporanei?
Anche qui non si tratta di un problema nuovo. Dipende molto dalla sensibilità di ogni compositore. Non esiste una tecnica, ce ne sono diverse. Come non c’è una tecnica della pittura: Duchamp aveva una tecnica diversa rispetto ad altri pittori, oppure pensiamo a Francis Bacon, si tratta di un’altra ancora. Quindi la tua tecnica deve tradurre ciò che vuoi comunicare, ciò che vuoi mettere dentro quella forma; il tipo di tecnica non ti giustifica e non dà necessariamente qualità. Ci possono essere cose che tecnicamente funzionano ma sono completamente inanimate, non ti lasciano nulla dentro.
Quante volte sentiamo la parola “funziona” nella composizione musicale. Ma è davvero questo il senso della musica? Funzionare?
Io faccio l’elogio dell’imperfezione. Un’opera funziona bene quando riesce a sopportare, a metabolizzare l’imperfezione; le composizione imperfette sono quelle che funzionano meglio. Anche nelle partiture di Verdi si possono trovare. Attenzione, non parlo d’imperfezioni tecniche, mi riferisco a piccole discrepanze rispetto a un’idea di coerenza di forma o di sovrapposizioni di elementi o al tipo di orchestrazione che si può pensare di avere. Ricordo che una volta incontrai Xenakis a Parigi e gli feci notare, con una certa ingenuità, che in una battuta c’era un’irregolarità ritmica di valori. Lui mi rispose che era effettivamente un errore ma non aveva alcuna importanza, non ne era minimamente turbato.
E che cosa consiglierebbe a un giovane compositore dal punto di vista tecnico?
Devo dire che spesso noto che i giovani sono molto assillati dalla tecnica (e dipende anche dai maestri che hanno), perché non trovano argomenti sulle questioni più immaginative, dell’esperienza. Dato che è molto difficile e faticoso compenetrare il nostro presente in maniera creativa allora ci si illude che attraverso la tecnica si riesca ad esprimerlo. Non è così. Il tempo ha una sua complessità ed è proprio questo l’aspetto interessante, riuscire a mettere in relazione ambiti e pensieri diversi del presente, non la complessità tecnica della costruzione fine a se stessa. Ciò che conta è non essere un epigone. Ti interessa la complessità, vuoi approfondire la tecnica? Benissimo, fallo. Ma non devi essere Ferneyhough, Boulez o altri che sono andati su quella linea. Se riproponi modelli già visti non è interessante.
A questo proposito cosa pensa del tempo che viviamo?
Fondamentalmente viviamo in una dimensione eclettica, che offre un ventaglio molto aperto di possibilità. Il punto è come traduci questo eclettismo in musica, ammesso che tu voglia tradurlo. Puoi farlo stando chiuso e asserendo che la musica si debba scrivere in un certo modo? Io personalmente non mi sento di dire che esiste una specifica modalità, sono aperto a tutti i modi possibili ma voglio ascoltare delle cose che mi sorprendano.
E ancora oggi, dopo tutte le sperimentazioni e le forzature cui abbiamo assistito, ci si può sorprendere?
Anche questa è una questione vecchia, già quando ero giovane mi sentivo fare questa domanda. Personalmente riesco ancora a sorprendermi di essere piacevolmente sorpreso quando guardo un film, leggo un libro o ammiro un quadro, sempre che non siano epigoni. Devo dire che noto un ripensare delle esperienze degli anni ’60, quasi performative, happening, forme aperte, e vengono ripensate in maniera strutturata, magari con i mezzi tecnologici di oggi. Questo diventa nuovo e sorprendente.
Qual è il suo concetto di direzione artistica? Evidentemente non si tratta di un semplice calendario che racchiude eventi e concerti sparsi, si nota sempre un’idea di fondo che lega ogni data creando una sorta di mosaico ben congeniato.
Assolutamente, i progetti devono sempre essere di medio e lungo termine. Purtroppo in Italia siamo abituati a ragionare anno per anno se non addirittura semestre per semestre; in questo modo le orchestre non crescono. L’orchestra deve cambiare; è un prodotto culturale che ha già qualche secolo e non può più andare avanti così, va rivisto in ogni suo aspetto, dai contratti sindacali alle modalità, da come sono vestiti a come si relazionano. È un oggetto troppo museale e quindi va reso più moderno. Per questo il futuro deve essere proiettato in avanti, verso la creazione di un orizzonte e la comunicazione dello stesso, altrimenti il teatro, la fondazione lirica e l’orchestra si sentono disorientati e non capiscono dove stanno andando. Ecco che il compito del direttore artistico è quella di suggerire una direzione, che può essere condivisa o meno, ma intanto non stiamo in alto mare, poi ci confronteremo sui risultati di quelle scelte. Si tratta di un’arte relazionale, bisogna mettere in relazione le cose. Lo scopo è quello di inquietare, non nel senso negativo ma letterale, di smuovere la quiete, creare movimento laddove non c’era. Se tu non vuoi essere inquietato ma consolato è una dimensione diversa della cultura, quella dell’intrattenimento. Io invece credo che un festival, come per esempio quello di Torre del Lago, abbia un potenziale per legarsi al presente.
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