L’artista che si fa sciamano di novita’: uno scambio con Giorgio Battistelli, tra passato, presente e futuro.

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di Gabriele Cupaiolo

Leone d’oro alla carriera dalla Biennale Musica di Venezia, compositore e organizzatore musicale tra i più acclamati sulla scena internazionale, pure allievo di Stockhausen: è stata una chiacchierata molto piacevole quella con Giorgio Battistelli, che, col fuoco tipico di chi nutre una sincera passione verso quello che fa, si è espresso su questioni e temi riguardanti la contemporaneità: dal dubbio come mezzo di crescita al ruolo dei giovani nella società, dalle politiche dei teatri ai progetti della Fondazione Haydn. Addentriamoci all’interno di un mondo fatto di pensieri, suoni ed emozioni.

 

Buonasera Maestro, è un piacere poterla intervistare. Una coincidentia fa da trait d’union tra l’Experimentum Mundi e il Teorema di Pasolini, gli estremi poli temporali della sua carriera artistica: mi riferisco alla sua spigliata intraprendenza, che le ha permesso di intendere l’arte quale veicolo di pensieri e indagini profondamente autoriali. Sente di avere ancora altro da scoprire, tra i meandri della sua mente?

Senz’altro. In relazione al processo di creazione musicale ritengo che sia pertinente utilizzare la metafora del viaggio, soprattutto se intesa quale esplorazione di territori sì diversi tra loro – alcuni più impervi, altrimenti meno -, ma tutti appartenenti a un’unica dialettica esistenziale. Ho fatto della dubitanza un mio perno, uno strumento di conoscenza e analisi indispensabile ai fini di questo atto di scoperta. È trascorso poco tempo da quando in tv, per caso, mi sono imbattuto in un documentario che proponeva alcune mie interviste di vent’anni fa: già allora facevo riferimento all’importanza del dubbio, che non offre risposte, bensì domande che si rinnovano, quelle sole che, conquista dopo conquista, garantiscono una crescita sana ed esponenziale. Adotto questa strategia sia nelle vesti di direttore artistico che di compositore: un ottimo risultato coincide innanzitutto con l’aver lasciato il pubblico spiazzato; meglio fargli portare a casa grandi domande, piuttosto che piccole sicurezze. Ne abbiamo bisogno in questa società: l’arte in senso lato, lo dico senza retorica, deve avere questa funzione corrosiva. La varietà e l’eterogeneità aiutano a raggiungere questo scopo: cerco sempre di avvalermi di tecniche, estetiche e poetiche mai uguali tra loro.

 

La sua produzione, quindi un dato di fatto, dimostra quanto lei creda in quello che dice.

Mi sono sempre impegnato in tal senso, lo riconosco. D’altro canto, il dubbio è un toccasana contro l’oblio e contro la pigrizia mentale: laddove niente riesca più a sedimentarsi sul fondo della memoria, gli eventi avvengono e poco dopo decadono. Preferisco che la mia attività venga ricordata in senso negativo, piuttosto che dimenticata in toto. Da appassionato di antropologia apprezzo molto la prospettiva di Roland Barthes, per cui in grembo alla storia avverrebbe uno slittamento dalla sapienza alla conoscenza, dalla conoscenza all’informazione; come in una progressiva decadenza dall’età dell’oro a quella del bronzo, la sapienza detiene massima stabilità e vitalità, mentre l’informazione è del tutto fugace e meccanica. Sulle basi della sapienza si erge, poi, il concetto di connessione, nello specifico quel possibile legame tra l’ascoltatore e l’articolazione delle sfere o spazi esistenziali a sua disposizione: questi, attraverso un’operazione estetica – come assistere a una mostra, a un concerto, a una performance teatrale – sono esperite quale proiezione delle categorie mentali del singolo individuo, dunque in modo soggettivo. Oggi l’artista dovrebbe essere un placemaker, se non addirittura uno sciamano: come dicevo, sarebbe opportuno che il suo prodotto non venisse mercificato e consumato velocemente, ma che consentisse l’accesso – se non l’iniziazione – a dimensioni nuove. Purtroppo, oggi parlare in questi termini appare quasi un tentativo di apparire misteriosi o esoterici, è difficile soffermarsi sull’accezione più autentica di questi archetipi. Si pensa al musicista come a una figura più superficiale che in passato, e non solo perché i tempi addietro ci sembrano sempre un po’ meglio del presente.

 

Il tema dell’intraprendenza richiama un’altra questione delicata, quella delle nuove generazioni: quanto spazio riescono a ritagliarsi i giovani oggi, rispetto a decenni fa? Cosa è cambiato a livello societario?

Se intendiamo i giovani come pubblico, penso che la maggiore difficoltà dell’attualità consista nel capire come connettersi con le nuove generazioni, che si avvalgono di un sistema percettivo del tutto mutato, specie in rapporto alla cultura. Attribuire loro colpe su colpe e continuare a proporre le solite modalità di fruizione dei concerti, i soliti ambienti e i soliti codici non offre soluzione alcuna: a problemi noti servono risposte alternative. L’arco temporale è cambiato, abbiamo sempre etichettato come disturbo di attenzione quel che può essere visto alla stregua di un’attività multitasking del pensiero, una segmentazione della concentrazione in grado di arricchire la mente di un nutrimento più ampio: anche pensare così significa spiazzare le aspettative. Quando esiste un’aspettativa verso una ritualità assodata si assiste anche a un’omologazione delle idee, perciò a un avvilimento della creatività. Lato musicisti, gli addetti all’educazione tecnica devono prendere atto di queste questioni, in primis riflettendo su un oggetto culturale (ma artificiale) come l’orchestra: essa, per quanto nobile, è un organismo che nasce in seno ai processi culturali e, come tale, deve sempre tenersi in connessione con la società che cambia, che sviluppa continuamente variabili su variabili. Penso al tema della multiculturalità: abbiamo in testa un modello eurocentrico e ormai vetusto di ensemble, laddove il presente e il futuro si muovono verso tendenze più omogenee e omologate. Come autori e promotori di cultura dobbiamo andare contro il sistema, meravigliando il pubblico con progetti e visioni inaspettate. Si badi, meravigliarsi non significa necessariamente scandalizzarsi, ma sicuramente stupirsi per qualcosa di cui talvolta non contempleremmo nemmeno la possibilità d’esistenza.

 

Le sue scelte artistiche, per quanto di successo (nel 2021 il Teatro dell’Opera di Roma ha inaugurato la stagione, per la prima volta in epoca recente, con un lavoro contemporaneo, il suo Julius Caesar), non rispecchiano la realtà media del teatro italiano, che tende a rievocare le solite proposte, quelle in grado di garantire l’incasso. Quali futuro si prospetta per il panorama culturale nazionale? C’è presagio di cambiamento?

Qui entriamo in una problematica nuova. Un interesse strettamente numerico e quantitativo, quello del guadagno, guida le mosse degli operatori interni ai teatri. Anche solo la generazione precedente alla mia faceva del confronto tra pensieri una prerogativa assoluta: penso a una figura come quella di Stockhausen, uno dei miei mentori, o ai contrasti tra Cage e Boulez, Boulez e Bussotti, Bussotti e Berio: a volte entravano in aspro conflitto tra loro, ma i loro mondi, pur talvolta inconciliabili, si sforzavano di porsi in dialogo; attualmente questa danza di menti e filosofie viene rigettata, non solo per un disinteresse a farlo, ma anche e soprattutto per l’assenza di contenuti intrinseci rispetto a quelle stesse menti e a quelle stesse filosofie. La maggior preoccupazione è quella di lavorare il più possibile: il che non è di per sé un male, ma se l’atteggiamento è ossessivo le prospettive di crescita vengono per forza meno.

 

Da dove incominciare?

Un ottimo inizio, per quanto coraggioso, potrebbe corrispondere a investire in una politica di alleggerimento e sostenibilità dei teatri. È assurdo che ci sia una quantità di orchestre (penso in primis alle ICO) così impressionante – e continuano a crescere -, così come di festival (abbiamo oltre 1600 festival in Italia): ognuna di queste entità assorbe delle energie, ma se le risorse poi non bastano nessuno ne esce integro e sano. Così come non basta mettere al mondo i figli, ma bisogna nutrirli e educarli, allo stesso modo bisognerebbe pensare alle orchestre. La politica dovrebbe agire su questo versante, verificando i risultati di quello che accade e operando non sulla base di un diritto di esistenza o di sopravvivenza, ma di produzione: è opportuno confrontarsi su ciò che si realizza, non su ciò che si vorrebbe realizzare. Prendendo le mosse da questo presupposto potremmo alleggerire invece che appesantire; ma in una cultura legata alla ricerca del consenso e intollerante alla critica, questo tipo di azione viene avvertito come troppo rischioso, sebbene possa rappresentare una possibilità d’investimento ben concreta. Il direttore d’artistico, il compositore, il regista, lo scenografo si confrontano su quel che è in potenza, ma poi all’atto pratico si dedicano a tutt’altro: sono certo che con un po’ di realismo incentrato sulla sostenibilità, i risultati non tarderebbero ad arrivare. Il nostro sistema è corrotto in tal senso, il che rende nel complesso infruttuoso chi si dedica davvero alla causa. Uno degli ultimi partigiani del confronto è stato Piero Farulli, con cui ho sostenuto un fruttuoso dialogo di tipo etico e morale: guai oggi a parlare su questi piani, subito si viene tacciati di moralismo e, se si fa notare un elemento di incoerenza o di contraddizione, viene risposto che c’è chi fa di peggio. Ripenso alle conversazioni del secolo scorso, quelle degli intellettuali che hanno contribuito a dare un senso alle cose che accadevano. Ho in mente Paolo Grassi, Francesco Siciliani, Massimo Bogianckino.

Nella mia carriera ho incontrato vari ministri, ho avuto molte occasioni di conversazione – su temi più o meno generici, dalla formazione alla vita dei teatri e delle orchestre -, ma non ho mai riscontrato, nemmeno da parte di quei politici particolarmente interessati a questi temi, un’attività battente e prolungata nel tempo, come se fossero risucchiati dalla paura dell’esclusione e del dissenso. Il consenso è la cosa più importante anche per noi artisti, ma il fallimento dovrebbe essere visto come qualcosa di potenzialmente istruttivo, poiché solo se viene messo sotto il tappeto è minaccioso per il futuro. Ad ora la situazione italiana è demotivante, regnano la staticità e un’aria di necrosi: è fondamentale riportare le istituzioni ad essere vitali.

 

A proposito di prospettive future, lei è direttore artistico dell’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento: sa già darci qualche anticipazione su qualche progetto?

Senz’altro. Innanzitutto, ripeto quanto detto durante la conferenza di presentazione della Stagione Sinfonica 2024/25: confermo che, come un’oasi nel deserto, l’Orchestra Haydn è una realtà viva. Essere vivi è fondamentale, come dicevo. Abbiamo in mente progetti ambiziosi: penso al percorso centrale, che rappresenta un approfondimento e una specializzazione interpretativa della musica di Haydn (un richiamo all’‘Arcipelago Haydn’, n.d.r.). Lo realizziamo grazie a Ottavio Dantone, col quale la collaborazione si è intensificata nel corso del tempo, specie da quando è diventato Direttore Musicale; il suo contributo sarà ancora una volta fondamentale, ed è una fortuna poter godere della sua professionalità per almeno altri tre anni. Il repertorio del grande musicista di Rohrau non è eseguito nella misura che si potrebbe immaginare; per quanto gli si attribuisca la nomea di ‘padre del Classicismo’, i problemi interpretativi e tecnici che le sue sinfonie pongono non sono di immediata risoluzione, costituiscono un mondo a sé stante e non vanno confusi con certe istanze più tipicamente mozartiane e beethoveniane: mettere mano alle opere del suo genio sarà un’esperienza ancora una volta formativa innanzitutto per noi addetti ai lavori.

Ancora, abbiamo in mente un progetto in collaborazione con Thomas Dausgaard, che toccherà la Mitteleuropa orientale e l’Europa del Nord tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, con lo sguardo rivolto soprattutto a Norvegia, Svezia, Danimarca e Lituania; con Michele Mariotti ci inoltreremo tra i ponti interpretativi che connettono Russia con Italia e Francia, in un pieno clima di scambio tra culture così importanti. Di rilievo anche il compito assegnato al giovanissimo Alessandro Bonato, insignito con piena fiducia della carica di Direttore Ospite: alle sue capacità affideremo la realizzazione di un Barbiere di Siviglia. Abbiamo in serbo, poi, il Progetto Nagano, che si svilupperà nei prossimi tre anni: grazie alla sapiente arte di Kent Nagano realizzeremo un festival annuale – dalla durata settimanale – che svarierà su più fronti, da Haydn alla contemporaneità.

Sarà, inoltre, il mio primo anno da Direttore della Stagione operistica: porteremo in scena cinque titoli: a chiusura dell’anno pucciniano inaugureremo i lavori con Gianni Schicchi, in contiguità con il Pierrot Lunaire di Schӧnberg. A seguire Il Barbiere di Siviglia di Rossini – con la regia di Fabio Cherstich, nominato Regista in Résidence della Fondazione -, il Satyricon di Bruno Maderna e, infine, il Giulio Cesare di Hӓndel, diretto proprio da Ottavio Dantone.

 

Allora non ci resta che darci appuntamento al prossimo anno. Che dire, è stato un piacere dialogare con lei. In bocca al lupo per tutto!

Grazie, altrettanto!

 

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