di Alessio Zuccaro
È facile dispendere la propria energia in mille mestieri: molto più difficile, e traguardo di pochissimi, è raggiungere l’eccellenza in ciascuno di essi. Dale Franzen – californiana, una carriera multiforme da cantante d’opera, produttrice teatrale, fundraiser, amministratrice artistica – ce l’ha fatta, e non sembra volersi fermare. Il suo musical Hadestown, che tratta il mito di Orfeo ed Euridice in chiave moderna, ha da poco vinto un Grammy Award e un Tony Award, e dopo il debutto a Broadway ha guadagnato consensi in tutto il mondo. Nell’ambito di Cremona Musica International Exhibitions and Festival Dale Franzen ha partecipato insieme al marito, l’avvocato Don Franzen, alla tavola rotonda intitolata Musicpreneurship – Ideazione, finanziamento e produzione di progetti musicali, con l’obiettivo di far luce sulle nuove opportunità di finanziamento pubblico e privato per i progetti di musica classica.
Nell’incontrare chi, come lei, ha guardato alla musica da prospettive così numerose e differenti (cantante d’opera, produttrice, amministratrice), sorge spontanea una domanda: come le piace essere definita?
Il mondo di oggi richiede che le persone abbiano molte occupazioni diverse. Lei, ad esempio [si rivolge all’intervistatore, ndr], è un musicista, ma in questo momento è impegnato in un’intervista, quindi potrei girarle immediatamente la domanda! [ride] La verità è che è diventato difficile mantenere una professione a lungo, ed è esattamente quello che è accaduto a me.
Come sceglie ogni volta quale direzione seguire?
Quando mi trovo di fronte a un nuovo progetto, mi chiedo: questa storia ha davvero bisogno di essere raccontata? È di questo che il mondo ha bisogno? Quando mi sono imbattuta in Hadestown, opera della cantautrice americana Anaïs Mitchell e inizialmente concepito in forma di concerto, mi è apparso subito chiaro che la sua trama aveva le qualità per diventare un vero e proprio musical; altri progetti, invece, si prestano a prendere la forma di documentari o di film. In ogni caso, devo essere prima di tutto colpita dalla storia.
In un’intervista su Forbes ha dichiarato che «lo sviluppo di un musical richiede molto tempo, perché… il risultato deve essere il migliore possibile. Non si può rischiare di andare a Broadway troppo presto». Cosa ha permesso il successo di Hadestown?
Tutto inizia dalla preparazione, e dall’attenzione a molti dettagli. Per trasformare Hadestown in un musical che potesse raggiungere Broadway era necessario rendere la storia più chiara, aggiungere un po’ di leggerezza, cambiare alcuni arrangiamenti, ma dovevamo anche curare i personaggi, l’illuminazione del set e tanto altro. È difficile allestire un musical perché, come l’opera, coinvolge ogni aspetto della performance artistica: orchestrazione, arrangiamento, movimento, suono, coreografia. Anaïs Mitchell non ne aveva mai scritto uno, quindi anche lei ha dovuto imparare strada facendo. È importante sapersi prendere il tempo necessario, mentre tanti si precipitano a Broadway senza realizzare che hanno una sola possibilità: o la va o la spacca! Noi non avevamo alcuna scadenza, e abbiamo anche avuto la fortuna di poterlo presentare appena un attimo prima dello scoppio della pandemia. Ci sono volute quattro produzioni per avere il risultato più soddisfacente, tra cui una al National Theatre di Londra.
Quale pensa che sia il segreto di Hadestown? Perché la gente lo ama così tanto?
Domanda da un milione di dollari… Si tratta di una versione moderna del mito di Orfeo ed Euridice, e il pubblico ama i miti, le storie che ti spingono a porti delle domande importanti su te stesso: «Come mi comporterei io? Sarei leale? Sarei sincero? Farei ciò che è giusto o ciò che è semplice?» Noi abbiamo scelto di non schierarci: abbiamo semplicemente presentato questi fantastici personaggi, a cui la gente si è subito legata. Inoltre, credo che le varie componenti del musical si siano armonizzate brillantemente. Tutto ciò ha contribuito al suo successo, ma non saprei dare una ricetta universale!
Lei ha una grande passione che esula dal mondo artistico: il nuoto. Durante il Covid ha scritto un piccolo libro, intitolato Sea Fever, in cui racconta la sua esperienza di nuoto in mare aperto durante il periodo pandemico. Come racconterebbe la bellezza di questa pratica a chi, come me, è terrorizzato dall’acqua alta?
Sarò onesta: molte persone pensano sia matta, incluso mio marito! [ride] Abbiamo tre figli, solo uno dei quali nuota in acqua alta come me. Non so spiegare il perché di questa mia passione: alcuni amano la montagna, altri il deserto, io l’acqua. Personalmente, mi sento molto meno sicura a guidare nel traffico di New York, piuttosto che a nuotare nell’oceano. Certamente devi saperti proteggere, ed è consigliabile non nuotare da soli. Ma se sai a cosa fare attenzione, è un’attività molto sicura.
Quali sono i suoi progetti futuri nel mondo del teatro?
In questo periodo sto supportando un progetto in cui credo molto e sto lavorando a un documentario. Non ho in cantiere nuovi musical, ma sono costantemente alla ricerca di narrazioni che stuzzichino la mia curiosità.
Per concludere, ci regala una pillola sulla sua esperienza cremonese?
Ho partecipato a Cremona Musica con mio marito, Don Franzen [avvocato di varie star del palcoscenico come Placido Domingo, Jonas Kauffman e Cecilia Bartoli, ndr]. Oltre a gustarci la fiera e la miriade di eventi, abbiamo dato il nostro contributo a una tavola rotonda sull’imprenditoria musicale: è stata una preziosa occasione di dibattito e confronto con numerose realtà internazionali. Non ero mai stata a Cremona, e devo dire che è stata una scoperta meravigliosa!
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