Carlo Gabardini ricorda l’amico cantautore morto questa mattina a 57 anni. «Era un uomo intero e rassicurante che ti guardava dritto negli occhi anche quando ti parlava al telefono»
Ho conosciuto Gianmaria Testa parecchio tempo fa e ora che se ne è andato sono triste, tristissimo. Ascolto Nient’altro che fiori che ha postato sulla sua pagina Facebook ieri con nient’altro che il titolo a far da didascalia al video, e non posso non piangere, ricordarlo, provare a sorridergli fuori tempo massimo.
Gianmaria era un uomo intero e rassicurante che ti guardava dritto negli occhi anche quando ti parlava al telefono; lo sapevi, lo sentivi, ne eri certo.
L’ho conosciuto quando venne ad assistere a uno spettacolo di Paolo Rossi nel quale ero in scena anch’io; andammo a cena tutti assieme nel più classico dei dopo-teatro e mi stupì ponendomi tantissime domande sul testo, curioso di sapere come si fa a scrivere per un comico come Paolo. «Perché Paolo in scena fa musica, è jazz, come si fa a scrivere un testo per un jazzista, Carlo?».
«Non lo so, Gianmaria, forse il fatto che io sappia pochissimo di musica mi ha aiutato».
Poi mi ha chiesto di scrivergli una canzone, e io ero il ventenne più felice del mondo, perché scrivere canzoni è sempre stato il mio sogno e perché adoravo Testa ben prima di conoscerlo di persona. E poi Gianmaria Testa è uno dei pochi per cui non vale la regola aurea: meglio non conoscere i tuoi miti, son sempre delusioni.
Lui era l’opposto, lui era le sue canzoni che a loro volta erano esattamente lui, lui credeva veramente in quello che cantava, lui volevi abbracciarlo anche a tavola nella speranza che ti fosse amico, lui era un fratello maggiore e al contempo un padre, comprensivo ma serio, anzi: allegro ma fermo. E i suoi baffi erano rassicuranti come un tè caldo.
Non riuscivo a scriverla, questa canzone, terrorizzato anche di deludere un mio mito. Ma lui insistette, avendo evidentemente capito che con me così bisogna fare.
Ci sentivamo al telefono, io parlavo per ore di dubbi, abbandoni, la storia di due che non riescono a lasciarsi, pensieri complicati che mal si coniugano con la stesura di una canzone. Lui mi diceva: «Pensa al rumore del tram. E scrivi».
E alla fine scrissi e consegnai. Dopo una settimana mi rispose: «Sto lavorando sulla tua canzone ma ho capito che è troppo personale, Carlo, devi cantarla tu», e io gli dissi: «Mi sembra il più bel modo di sempre per dire: mi fa schifo!».
Sapevo che stava male da gennaio dell’anno scorso, eppure con lui mi sono comportato esattamente come con mio padre quando ho scoperto il suo tumore: ho orrendamente fatto finta di niente. Come se quella malattia non ci fosse. Come a volerla dimenticare a priori, negarla per renderla inesistente, tacere nella speranza che se ne vada da sola perché nessuno la considera. Un sanissimo atteggiamento infantile da deficiente che sta giocando a nascondino con la Morte: se io non vedo te, tu non puoi vedere me, e quindi non mi prenderai. Sapevo, come tutti, che stava male, perché lo disse in una bella intervista-chiacchierata con Michele Serra per La Repubblica, ricordandoci che «questa è una malattia che produce panico, che neanche si nomina, e questo non serve, non aiuta. Non bisogna chiamarlo male incurabile, bisogna nominarlo». E in conclusione aggiunse: «Io sono tranquillo. Se il tempo è galantuomo, guarisco e torno». Purtroppo, l’unico galantuomo era proprio lui, e il tempo pochissimo.
Fonte: Vanity Fair
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