di Giulia Vazzoler
Esce per Alpha Classics il secondo progetto discografico del Busch Trio, che riunisce nello stesso programma concertistico due compositori apparentemente antitetici. Il primo è Maurice Ravel, esteta con il gusto della raffinatezza timbrica e dell’accuratezza formale, sulla scia dei compatrioti Chabrier, Satie e Debussy. Il secondo è Dmitri Shostakovich, autore di pagine dense e scomposte, debitrici dell’eredità austro-germanica di Mahler e Berg e tormentate dal perenne contrasto con il regime stalinista.
Nonostante queste differenze strutturali, Ravel e Shostakovich hanno una cosa in comune, che è la ritrosia di esprimere i propri sentimenti più intimi. I due Trii riflettono questa riserva condivisa e sono entrambi portatori di una certa ambiguità espressiva anche se, talvolta, entrambi i compositori decidono di calare la maschera.
Ravel comincia la stesura del suo unico Trio con pianoforte nel marzo 1914 a Saint-Jean-de-Luz, cittadina di mare basca poco distante dal suo paese natale Ciboure. Le suggestioni della Guascogna sono evidenti già dal primo movimento, ispirato alla danza basca del Tzortziko. Il Trio è dedicato ad André Gédalge, docente di contrappunto di Ravel, che – come ben documenta Milhaud – insisteva affinché i suoi allievi sapessero scrivere otto battute ben congegnate di melodia senza accompagnamento. La suggestione di Gédalge diviene il pattern d’apertura del terzo movimento, che propone una melodia nuda nel registro basso del pianoforte poi ripresa dal violoncello e dal violino.
Il Trio Busch apre il Modéré fra il dondolio dei mezzitoni; oscilla, sospeso e ombroso, nel Pantoum, e si frammenta nell’incedere discontinuo e singhiozzante della Passacaille. La vera, inestinguibile, propulsione di energia è però nell’Animé del Finale, dove i tre musicisti sfruttano al massimo le potenzialità sonore e timbriche dei loro strumenti. L’amalgama sonoro è grandioso, orchestrale, e sfocia in una sgargiante e grandiosa perorazione finale, tripudio di una gioia sincera e riscoperta nonostante l’angoscia di una guerra sempre più vicina.
Più drammatiche le circostanze nelle quali viene alla luce il Trio n. 2 op. 67. È il 1944, la guerra continua a infuriare, e le notizie delle atrocità dell’Olocausto arrivano anche a Mosca, vicino al fronte di Kuibyshev, dove Shostakovich è costretto a vivere dopo l’evacuazione forzata da Leningrado. L’11 febbraio muore l’amico fraterno Sollertinsky, che diviene il dedicatario del Trio.
Il primo movimento è senz’altro del violoncello. Sin dalle prime battute, Ori Epstein mette i brividi, con i suoi armonici straziati e il suono dilaniato da un registro violoncellistico esasperatamente acuto, spesso al di sopra di quello del violino, che sconvolge e tormenta in un movimento crescente in potenza e ritmo. La formazione si ricompatta nel secondo movimento, uno di quegli scherzi bizzarri ed eccentrici per i quali Shostakovich aveva un talento innato. Saldamente condotti dal violino di Mathieu van Bellen, i tre performer danzano e volteggiano, talvolta garbati, talvolta selvaggi, senza mai perdere il senno nella stravaganza della scrittura.
Come aveva fatto Ravel trent’anni prima, anche Shostakovich sceglie la forma arcaica della passacaglia per il terzo movimento del Trio. Il tema, austero e solenne, è ben enunciato dalla serie di accordi del pianoforte di Omri Epstein. I due archi lo chiosano con una melodia in contrappunto, condotta severamente a parte l’indugio di qualche piccola effusione. L’omaggio a Sollertinsky conduce a un finale conturbante, nel quale Shostakovich, per la prima volta nella sua carriera di compositore, usa un tema ebraico, interesse emerso dopo aver completato l’opera Rothschild’s Violin che il suo allievo prediletto Benjamin Fleischmann aveva lasciato incompiuta all’età di 28 anni. Qui, il pianoforte espressivo di Omri Epstein immerge nelle suggestioni della musica klezmer, poi si sgancia autorevolmente dall’egemonia dei compagni in una danza macabra sempre più oppressiva, sino a quando, per gli accordi finali, il Trio decide di ritrovare l’atmosfera elegiaca e quasi trasfigurata dell’antica passacaglia.
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