di Smeralda Nunnari
«Ci nutrimmo di lui come dell’aria / libera ed infinita, / cui dà la terra tutti i suoi sapori. / La bellezza e la forza di sua vita, / che parve solitaria, / furon come su noi cieli canori. / Egli trasse i suoi cori / dall’imo gorgo dell’ansante folla. / Diede una voce alle speranze e ai lutti. / Pianse ed amò per tutti. / Fu come l’aura, fu come la polla. […]» (Gabriele D’Annunzio, Laudi: Elettra, Per la morte di Giuseppe Verdi).
Giuseppe Verdi, il maestro di Busseto, universalmente riconosciuto come uno dei maggiori operisti e compositori nella storia della musica, durante il lungo arco della sua vita, segnata da grandi trionfi e forti tragedie, riesce a consolidare un successo di dimensioni mondiali. L’artista, assai presente nelle vicende del processo indipendentistico e unitario, ha influenzato la cultura e la storia del nostro paese. La lunga catena delle sue opere diventa simbolo del teatro musicale italiano e tutta Europa vede in Verdi l’antitesi a Richard Wagner, genio della musica tedesca.
Nell’ottobre del 1897, il musicista, all’età di ottantaquattro anni, decide di spedire, in modo esitante, a Giulio Ricordi due dei suoi Quattro Pezzi sacri, l’Ave Maria e il Te Deum e qualche giorno dopo le Laudi alla Vergine e lo Stabat Mater. Un gruppo di composizioni corali che conclude e consacra l’arte verdiana trasfigurandola. Insieme costituiscono un retaggio, un messaggio sorprendente diverso da quanto fatto presagire nelle opere precedenti, quel Verdi che si professava agnostico, convinto anticlericalista e in una famosa lettera allo stesso editore, si definiva «un po’ ateo». Quasi a lasciare spazio, però, all’ignoto, al mistero.
Il vecchio Verdi, ormai stanco e alle soglie della morte, dà, dunque, il suo consenso, alla pubblicazione dell’intero blocco delle opere sacre nel 1898 e alla loro esecuzione. L’Ave Maria, primo brano tra le austere composizioni che consolò la sua tristezza e la solitudine, venne eseguita per la prima volta a Parma, venerdì 28 giugno 1895, da allievi del Conservatorio, sotto la direzione di Giuseppe Gallignani. Gli altri tre pezzi sacri trovarono invece, la prima esecuzione insieme, nei Concerts spirituels, diretti da Paul Taffanel, giovedì 7 aprile 1898, all’Opéra di Parigi.
Lo Stabat Mater, imperniato sulla tonalità del Sol minore, in una tavolozza dai colori mesti, con le indicazioni didascaliche: Sostenuto, Poco più animato, Meno animato, sui versi latini del testo medievale di Iacopone da Todi, racconta solennemente il dramma umano e sovrumano. Il brano prevede un coro misto (soprano, contralto, tenore e basso) e una grande orchestra (3 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 4 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 4 tromboni, timpani, grancassa, arpa e archi).
L’incipit al cantico è dato da cinque accordi ostinanti e cupi, sui quali s’innalza il lamento pietoso del coro all’unisono davanti alla figura della Mater addolorata e del Filius sulla croce. L’ispirazione musicale procede in una meditazione drammatica, commossa e agitata, sui versi poetici scarni e solenni. Una spada trafigge il cuore della donna affranto dal dolore che vede morire l’Unico da lei generato. («[…] O quam tristis et afflicta / Fuit illa benedicta / mater Unigeniti! […]») Chi non piangerebbe davanti a tanto dolore? («[…] Qui est / homo, qui non / fleret […] in tanto / supplicio? […] »). Su un doloroso lamento degli archi le voci dei baritoni, accompagnati dai fagotti, intonano una melodia colma di compatimento, in una poetica musicale che evoca i canti di processione. Nel momento in cui muore Cristo, la scena si oscura («[…] Vidit suum / dulcem natum / moriéndo / desolátum, / dum emisit / spiritum […]»). Parole e musica si frantumano e si disperdono in un atterrito smarrimento. La supplica alla madre di poter condividere con lei lo strazio del Figlio diviene un grido di esasperazione («[…] Crucifixi fìge / plagas / cordi meo / valide […] »). L’intenerita pietas manifestata dai soprani e dall’intero coro (« […] Tui Nati / vulneráti, / tam dignáti pro / me pati, / poenas / mecum dívide. […] »), si fonde nell’ebbrezza dell’esaltazione del dolore. (« […] Fac ut portem Christi mortem […] fac me plagis vulnerari, fac me Cruce inebriari […]»). Verdi, tra le parole di Jacopone, esprime in musica il terrore della pena eterna e prega Cristo per la gloria del Paradiso. (« […] Christe… quando corpus morietur, fac ut animae donetur Paradisi gloria[…]»). Lo scontro tra il dolore, la paura e la fiducia diviene sempre più forte, fino a innalzarsi alla luce di una speranza attenuata dal dubbio e dall’angoscia. Ad un Amen pronunciato all’unisono e in pianissimo dalle voci, risponde il suono fosco dell’orchestra di colore sublime, chiudendo il cantico con il medesimo gemito iniziale del coro.
La Sequenza di Jacopone da Todi ha sempre affascinato musicisti di ogni tempo, fra i quali: Giovanni Pierluigi da Palestrina, Alessandro e Domenico Scarlatti, Giovan Battista Pergolesi, Tommaso Traetta, Antonio Vivaldi, Franz Joseph Haydn, Gioachino Rossini, Antonin Dvořák, Zoltan Kodály, Arvo Pärt, Francis Poulenc, Krzysztof Penderecki, Lorenzo Perosi. Ma dallo Stabat Mater verdiano emerge tutto lo spirito austero del musicista, la sua inquietudine e la sua ricerca di un sostegno ideale nelle grandi figure dell’intercessione, della mediazione: Madre e Dio figlio, nel dramma dell’esistenza e l’infinito mistero. Una creazione musicale che sorge dalla potente immagine del dramma sul Golgota, dando possente rilievo alla parola.
Arrigo Boito, suo librettista, così dice del Verdi amato da tutti: «Egli ha dato l’esempio della fede cristiana per la commovente bellezza delle sue opere religiose, per l’osservanza dei riti. Sapeva che la fede è sostegno dei cuori». E, sulle parole di Arrigo Boito, che così bene descrivono il buon Verdi, vi auguro una Pasqua piena di luce e di speranza!
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