Tensione etica e flessibilità. Il “pensiero nuovo” di Giorgio Battistelli.

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La fotografia del profilo culturale e musicale in Italia è oggi segnata da linee incerte, contorni sfocati, molte ombre e poche luci. Irrimediabilmente, come altre volte nella storia, si avverte la necessità di affidarsi al pensiero brillante e geniale di figure professionali dotate di capacità d’ispirazione e slancio vitale. Giorgio Battistelli, direttore artistico del Festival Puccini di Torre del Lago e, prossimamente, dell’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento, è una di quelle. Artigiano del suono come pochi, ha rinnovato profondamente le strutture organizzative e manageriali in ambito musicale, instillando nella prassi un pensiero solido e illuminante. È tornato a parlare con noi di Tgmusic.it, proponendoci un’attenta riflessione sugli ultimi risvolti dello spettacolo dal vivo, non solo nel nostro Paese.

 

Da marzo, l’intero comparto musicale ha dovuto reinventarsi per poter sopravvivere nei lunghi mesi successivi, prima di tornare sui palcoscenici dei festival e dei concerti estivi. A tal proposito, l’esempio del Festival Puccini di Torre del Lago è stato certamente encomiabile, per la qualità della produzione artistica e per il successo riscosso tra il pubblico. Come ci è riuscito, in un anno tanto complicato?

Bisogna fare una premessa: nulla potrà tornare come prima. Stiamo vivendo un profondo mutamento antropologico e questo crea uno spaesamento, una vertigine, a cui le Istituzioni riescono a dare solo una risposta, quella dell’attesa. Ma l’attesa non risolve il problema, crea solo sospensione. I teatri e le orchestre devono essere luoghi non solo di manufatti artistici, ma trasformatori e produttori di pensiero. Oggi si è ridotto tutto a una forma di mercificazione e consumismo che ci ha reso ostaggio dei numeri e dell’impossibile ricerca del pareggio di bilancio. A Torre del Lago siamo riusciti a coinvolgere gli artisti e soprattutto i registi in questo “pensiero nuovo”, ad assoggettare le opere a dei vincoli diventati elementi scenografici o naturali. La parola chiave è stata “flessibilità”, che non significa adattarsi alla situazione contingente penalizzando la qualità, ma avere la capacità di trasformare gli elementi a disposizione, secondo un meccanismo di fascinazione e di bellezza.

 

Oggi cosa manca a livello culturale, politico e sociale in Italia?

La politica culturale italiana attuale è una “politica del cerotto”: tampona la ferita ma prima o poi cade. C’è l’incapacità e il disinteresse a far crescere culturalmente il Paese. Manca la tensione etica rispetto al passato. Ogni cosa viene riportata a una dimensione strettamente personale. Anche in questo momento di crisi profonda, i teatri e le orchestre tendono a non collaborare reciprocamente, ogni cosa è legata a una forma di narcisismo, una scarsa visione della collettività. Anche i musicisti hanno perso la capacità di ascolto dell’altro, diventato una sorta di “dissonanza” difficile da gestire.

 

Questo mi fa pensare al percorso storico-armonico della musica, quando a un certo punto c’è stata l’esigenza di trovare nuovi linguaggi che si alimentassero delle dissonanze invece di trovare la loro soluzione.

Assolutamente. Il mondo tonale non si è esaurito. C’è stato il bisogno di allargare il perimetro espressivo, creare una fusione sferica, una distillazione degli elementi passati come nuova forma. Oggi abbiamo paura dell’impurità. Quando parlo della forte competizione tra le istituzioni musicali italiane, mi riferisco proprio a questo, all’antropofagia diffusa, alla difesa continua del proprio territorio. Si ergono muri, si prendono distanze da ciò che è diverso da noi. Una possibilità per uscire da questa fase è quella di creare uno “stato sociale artistico”, dove tutti debbano ascoltare la voce di tutti; anche l’artista più distante può insegnarci qualcosa, semplicemente perché guarda la realtà da un’angolazione diversa.

 

Il Metropolitan Opera House di New York ha deciso di cancellare l’intera stagione 2020/2021, la Royal Opera House e il Barbican Centre di Londra sembrano puntare tutto sul live streaming. Si tratta, inoltre, di Paesi in cui il supporto economico proviene in larga misura da privati o da attività commerciali (nel primo caso, il 50% dal box office e dai servizi di trasmissione digitale, 50% dalle donazioni). Qual è la situazione qui da noi? Possiamo davvero ritenerci più fortunati?

Da noi manca la cultura del mecenatismo e, tranne rare eccezioni, vige invece quella dell’assistenzialismo. Bloccare un teatro è una presa di posizione molto più chiara rispetto a delegare agli altri la propria sorte, restando in attesa. Se i teatri per secoli hanno svolto una funzione precisa, in quello stesso luogo, oggi, vorrei ritrovare i medesimi elementi costitutivi; da questo punto di vista, capisco meno quelli che si ostinano a realizzare opere in forma di concerto. È, dunque, perfettamente comprensibile e coerente la decisione del Metropolitan. Per il resto, in Italia siamo fortunati nell’avere un Ministro sensibile come Franceschini e quando abbiamo dei tecnici competenti nel gestire certe situazioni ma, come dicevo, il “cerotto” prima o poi cade.

 

L’Art. 1, comma 6, lettera n del DPCM 7 agosto 2020, sostanzialmente confermato da quelli successivi, ha disposto il limite di duecento spettatori per gli spettacoli al chiuso. Anche in ragione delle critiche mosse da più parti per la disparità di trattamento dei diversi settori, qual è il suo pensiero a riguardo? Quanto e come potranno resistere i teatri italiani, le Fondazioni Lirico-Sinfoniche e le Istituzioni Concertistico-Orchestrali?

Ai miei primi concerti c’erano massimo ottanta, cento persone. Ne ero felicissimo. Oggi ci sono alcuni sovrintendenti che si lamentano di seicento spettatori in sala. Questo è un errore di valutazione: la cultura non cresce solamente in rapporto al numero. Al contrario, così facendo, il teatro diventa un “concertificio”. Premesso ciò, la disparità di trattamento deriva dal fatto che la Musica è allo stato gassoso, non si materializza, è un tipo di consumo troppo sofisticato. Chiudere un teatro è meno problematico che bloccare il campionato di calcio. È lo specchio, in fondo, di come la cultura è pensata all’interno dello Stato. Non è ritenuta un bene di prima necessità, quando invece fa parte di quei Ministeri, come Sanità e Sicurezza, che non dovrebbero avere problemi di bilancio. Queste limitazioni incideranno drammaticamente, considerando il fatto che le Fondazioni Liriche hanno un deficit attuale di quattrocento milioni di euro.

 

In un’intervista per Tgmusic.it ha detto che lo scopo di un direttore artistico è quello di “inquietare”, nel senso di smuovere la quiete, creare movimento laddove non c’era. In un’ottica di resilienza e resistenza, è un concetto che oggi possiamo allargare ai musicisti in generale?

Certamente sì. La funzione della cultura dovrebbe essere quella dell’arricchimento dell’anima, non solo quella consolatoria, di intrattenimento. Bisogna agitare, meravigliare, eludere le aspettative. L’agitazione non è fine a se stessa, ma ti fa scoprire nuovi modi di vedere le cose. Dovremmo tornare all’eterogeneità, dandoci risposte non solo di natura pratica. Va elaborato un cammino filosofico, una riflessione teorica sul teatro, senza concentrarsi solo sulla propria esposizione e sui numeri.

 

È stato sempre lodato per la sua visione e la capacità di innovazione. Come vede il futuro da qui a un anno, quando si insedierà come direttore artistico dell’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento? Si sta già pensando a come (ri)formulare la stagione 2021/2022?

Succederanno tantissime cose. A settembre inizierò subito da un importante festival di musica contemporanea e da un convegno internazionale. Voglio proporre un momento di riflessione, perché l’orchestra è uno spazio di riflessione. Bisogna trovare una soluzione di prospettiva, che dia un senso e un coinvolgimento diverso ai singoli musicisti. C’è  bisogno che l’orchestra ritrovi il legame etico con la società civile, affinché sia soprattutto uno spunto di comprensione del mondo in cui viviamo. Non possiamo far finta di nulla, perché tanto il tempo ce ne renderà conto.

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