Un sopravvissuto di Varsavia: celebre brano musicale in un lacerante sprechgesang ispirato all’Olocausto di Arnold Schönberg.

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«Quel che sono stato costretto ad imparare in quest’ultimo anno, infatti, mi è finalmente entrato in testa, e non lo dimenticherò mai. Cioè, che non sono un tedesco, un europeo, e forse neanche un essere umano (gli europei preferiscono a me i peggiori della loro razza), ma soltanto un ebreo. […] Siamo uomini di due specie diverse. Definitivamente! Comprenderà quindi come io faccia solo l’indispensabile per continuare a vivere. Forse le generazioni che verranno potranno di nuovo sognare. Io non me lo auguro, né per loro né per me. Al contrario, non so cosa darei per poter scuotere il loro sonno. Nei miei cordiali e devoti saluti possano scindersi con imparzialità il Kandinsky di ieri e quello di oggi.» (Arnold Schönberg, Lettera a Wassily Kandinsky – Mödling, 20 Aprile 1923)

Arnold Schönberg nasce a Vienna il 13 settembre 1874 in una modesta famiglia ebrea. Dopo la morte del padre si trasferisce a Berlino, dove amplia le proprie potenzialità compositive. Tra il 1901 e il 1933 insegna composizione prima al conservatorio J. Stern di Berlino, poi, all’Akademie für Tonkunst di Vienna e, successivamente, alla Kunstakademie ritornando, così, a Berlino. Ma, con l’avvento di Hitler viene allontanato dall’insegnamento. Costretto a lasciare la Germania, si reca con la famiglia in Francia. Poco dopo accetta la cattedra di composizione offertagli al conservatorio Malkin di Boston e si stabilisce negli Stati Uniti.

L’artista con profonda sensibilità esprime la crisi e la tragicità del proprio tempo. Attraverso l’esasperazione delle esperienze tardoromantiche e la dissoluzione della tonalità, giunge ad elaborare il metodo dodecafonico, ossia una nuova organizzazione razionale del linguaggio musicale atonale. Infatti, se nelle sue prime composizioni: Verklärte Nacht, Gurrelieder e Pelléas et Mélisande è evidente l’impronta del linguaggio cromatico wagneriano, nei lavori successivi arriva, gradualmente, al completo abbandono delle leggi tonali classiche. I 3 Klavierstücke op. 11 e i 4 Lieder op. 22 appartengono alla sua fase musicale atonale, in cui trovano la loro genesi anche le opere caratterizzanti il suo espressionismo, come Erwartung, Die glückliche Hand, Pierrot lunaire. Un espressionismo, il suo, non solo musicale, ma simbioticamente poetico e pittorico, considerato come dissoluzione della forma, che lo rende amico di Kandinsky, nonostante i pettegolezzi sull’antisemitismo di quest’ultimo contribuiscano a scalfirne tale legame.

L’esigenza di creare un nuovo ordine tra le dodici note della scala cromatica porta Schönberg all’elaborazione delle norme del sistema dodecafonico, che applica nei 5 Klavierstücke op. 23 e continua a usare successivamente, insieme ai suoi allievi tra cui A. Webern e A. Berg. Un sistema che si diffonde e si afferma in tutto il novecento musicale. Altri lavori dodecafonici del nostro autore sono la Serenata op. 24, il Quintetto per fiati op. 26, la Suite op. 29, il Quartetto op. 30, le Variazioni per orchestra op. 31, l’opera Von Heute auf Morgen, i Klavierstücke op. 33, il Moses und Aron, il Concerto per violino e orchestra, il Quartetto op. 37, il Concerto per pianoforte e orchestra, il Trio per archi op. 45, l’Ode a Napoleone e Un sopravvissuto di Varsavia.

Schönberg, mentre si trova negli Stati Uniti, turbato dalle notizie provenienti dall’Europa, in riferimento alle stragi di ebrei nei campi di sterminio nazisti e dalla morte del nipote in un lager, racconta tra l’11 ed il 23 agosto 1947, con suprema grandezza, nel suo poema lirico A survivor from Warsaw (Un sopravvissuto di Varsavia), op. 46, il dramma degli ebrei e lo sublima in musica.

Nel comporre tale opera, l’autore sceglie la forma dell’oratorio, con una voce recitante (il narratore), un coro maschile (che impersona i condannati) e un’articolata orchestra. Il brano trae ispirazione dal racconto di un giovane ebreo polacco sfuggito miracolosamente dal massacro del ghetto di Varsavia e da altre fonti.

L’opera si apre con un’introduzione dell’orchestra, che riproduce l’atmosfera cupa e opprimente, densa di dolore, paura, orrore, incubo e disperazione presente nel ghetto. Un forte impatto emotivo della musica, caratterizzata da una crescente drammaticità, tra squilli di trombe, dissonanze e crescendi improvvisi, che immergono lo spettatore in una scena di dolore e morte, rendendolo partecipe di tanto strazio. L’entrata della voce narrante, viene sostenuta dall’orchestra, che evidenzia i momenti più salienti del racconto. Tale voce recitante a tratti si trasforma in un grido intonato, che esprime tutta l’angoscia dei vari momenti della storia. I suoni che l’accompagnano sono aspri e graffianti, in alcuni istanti diventano esplosivi. Gli strumenti a percussione, come lo xilofono, le castagnette, i tamburi e la grancassa contribuiscono maggiormente a esprimere la crudeltà delle immagini che si susseguono nel racconto.

Il narratore afferma di non poter ricordare ogni cosa, poiché rimasto privo di sensi per la maggior parte del tempo a causa delle percosse subite dai soldati. Ma, in questa breve introduzione, fa riferimento al grandioso momento (ossia l’ultima parte di quest’opera) in cui i suoi compagni intonarono un canto ebraico poco prima di essere uccisi nelle camere a gas.

Una tromba squilla improvvisa a descrivere il risveglio dei prigionieri, gli archi fanno riecheggiare i loro lamenti, un contrabbasso pizzicato in maniera sempre più affrettata scandisce il loro procedere verso l’uscita. Sono scene di paura, disperazione e sgomento rese realistiche dalle voce del sergente tedesco che impartisce i propri ordini, attraverso lo sprechgesang, ossia il canto parlato, uno stile vocale particolare di Schönberg, già, usato in alcune sue opere, che rende la voce recitante ricca di inflessioni ed espressiva la narrazione. L’artista compendia la sua maestria nell’utilizzare i timbri dell’orchestra, per descrivere i momenti allucinanti della conta dei condannati. Infine, in un crescendo drammatico, pieno di tensione esplode il canto Shemà Israel (Ascolta Israel), uno dei canti più antichi della liturgia ebraica, l’unica voce che rimane ai condannati per sconfiggere la crudeltà con la fede. Ma, le sonorità aspre dell’orchestra contrastanti con quel canto sembrano soffocare quell’unica speranza.

L’opera viene presentata la prima volta ad Albuquerque, nel Nuovo Messico dalla Civic Symphony Orchestra nell’agosto del 1948, sotto la direzione di Kurt Frederick. La prima italiana si è tenuta, invece, a Torino il 20 ottobre 1961 da parte del Coro e dell’Orchestra Sinfonica della Rai di Torino.

Lo scrittore e drammaturgo Milan Kundera, considera tale opera: «il più grande monumento che la musica abbia mai dedicato all’Olocausto». E precisa che: «tutta l’essenza esistenziale del dramma degli Ebrei del XX secolo è in quest’opera viva e presente. In tutta la sua atroce grandezza. In tutta la sua bellezza atroce.»

 

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