Una star al servizio delle nuove generazioni. Intervista a Geoff Westley.

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di Gabriele Cupaiolo

È stata una conversazione a dir poco illuminante, quella con Geoff Westley, star della musica mondiale degli ultimi cinquant’anni, professionista eccellente e sempre capace di reinventarsi. Produttore e compositore, guida dei Bee Gees e collaboratore di Hans Zimmer, arrangiatore di De André per la London Symphony Orchestra e Direttore Musicale dei Festival di Sanremo 2018 e 2019: a lui spetterà il ruolo di Presidente di Giuria di ZoMusic Contest, concorso musicale promosso da ZoWorking, nella guida artistica di Luigi D’Amico e con partner come la Regione Toscana, il Comune di Sesto Fiorentino, Banca di Cambiano, ADA Music by Warner Music Italy, Toyota Material Handling Italia, K-Array, Accademia Musicale della Versilia, 2Dto6D, Corte di Caterina, Zambra Production, Fuapp srl.

Media partner: QN, Il Giorno, Il Resto del Carlino, La Nazione, Luce, TGmusic.it e Radio Bruno.

 

Buongiorno Geoff, grazie mille per aver trovato il tempo per parlare con noi. Come sta oggi?

Buongiorno, grazie a voi per l’invito. Sto molto bene, grazie!

 

Nel corso della sua strepitosa carriera ha lavorato con tantissimi artisti di fama mondiale, molti dei quali italiani: Lucio Battisti, De André, Renato Zero, Laura Pausini, ne potremmo nominare a bizzeffe. Come descriverebbe il suo rapporto con la musica italiana? Che differenze ha riscontrato col mondo anglosassone?

Premetto di essere nato come musicista classico: non ascoltavo nemmeno una nota pop prima che emergessero i Beatles, gli unici in grado di farmi cambiare idea al riguardo. Una volta entrato in questo nuovo mondo, quando ho iniziato ad arrangiare e produrre dischi, il mio primo progetto italiano è stato quello con Lucio Battisti. Fui molto fortunato: ero in pausa dalle tournée con i Bee Gees e feci amicizia con il direttore artistico della filiale RCA di Londra, dove lavoravo come turnista in studio; prese in seria considerazione la mia disponibilità a lavorare come produttore musicale e arrangiatore, tant’è che mi offrì l’occasione di collaborare proprio col famoso cantante laziale. Il successo che avemmo (Geoff Westley ha lavorato a Una donna per amico e Una giornata uggiosa con Battisti, ndr) mi permise di ottenere nuovi progetti con altri artisti del Belpaese. Dopo aver iniziato, quindi, quasi per caso, più lavoravo con gli italiani, più mi rendevo conto di quanto mi trovassi bene con loro. Non è un luogo comune, la liricità, intesa in senso ampio, è radicata nell’anima del vostro popolo: ad ogni angolo puoi trovare, per dirne una, un tassista che commenta a fondo gli artisti, che canticchia canzoni leggere o addirittura arie di Donizetti e Puccini – più o meno consapevolmente. Questo non avviene in Inghilterra, dove è più frequente liquidare l’ultimo ascolto con un semplice ‘well, it is great, isn’t it’?

 

In Italia ha trovato una risposta consapevole anche da parte del pubblico, mi pare di capire.

Il pubblico italiano è molto informato e critico, è soddisfacente fare musica per chi capisce più in profondità di cosa ci occupiamo noi addetti ai lavori. C’è da dire, però, che sono stato benedetto a lavorare con artisti di alto livello; probabilmente la mia percezione è influenzata anche da questo fattore. Imparare la lingua è stato poi l’ultimo passo da compiere prima di rimanere definitivamente ancorato alla musica italiana per molti anni.

 

Non si è occupato solo di pop, ma anche di orchestre: come diceva, la sua formazione è stata classica, presso il Royal College of Music di Londra. Inoltre, ha scritto musica classica contemporanea (penso all’opera da camera Travels in the Arctic Circle o al progetto per piano solo Does what it says on the tin). Oggi è possibile coniugare tradizione e modernità?

Sì, in più modi. Dando per assodato che l’obiettivo comune a tutti i generi musicali è quello di fare musica di qualità, le strade percorribili possono essere tante: se la mia storia parte in conservatorio e si muove verso il pop, qualcun altro inizierà a suonare la chitarra a casa, senza mai entrare a contatto con la musica classica, ma finendo comunque per ispirarsi a qualche filone tradizionale. Lo ripeterò sempre, l’importante è suonare e collaborare. Quando lavoravo sulle basi di Lucio avevo sempre almeno tre ritmici in studio, ma non davo loro spartiti: c’era prima da capire cosa ci potessimo offrire, a vicenda, in termini di pura musica e ispirazione. Il mio ruolo era ordinare le idee, quello dei musicisti di produrle; creavamo vere e proprie sessioni di brainstorming in cui il batterista proponeva qualcosa che influenzava il bassista, a cui a sua volta rispondeva il chitarrista, e così via, finendo per modificare ciascuno le scelte e i gusti dell’altro. Suonare da soli e su basi artificiali non permette di migliorarsi. Inoltre, anche fuori dai momenti lavorativi, l’interazione e la compagnia fanno bene: un giorno, quando lavoravo con un gruppo emergente a Roma, invitai tutti a casa mia a cena dopo una sessione di registrazione. Misi di sottofondo musica di Arvo Part, Shostakovich, Sibelius, Schoenberg e Mahler, insomma, quel tipo di classica percepita come meno canonica e infiocchettata: persino in un momento così rilassato chi non aveva familiarità con questi autori ebbe modo di sorprendersi, sviluppando una curiosità che magari lo avrebbe portato a rivalutare anche i classici più strettamente intesi, tipo Mozart o Vivaldi. La formazione è continua per chi è ricettivo e open minded.

 

A proposito di musica classica: come dice, nel senso comune la si associa a criteri formali rigidi e immutabili, ma, anche senza scomodare il Novecento, già Bach o Haydn facevano uso di materiale improvvisativo per la strutturazione dei loro pezzi.

Assolutamente. Ha fatto prima riferimento a Does what it says on the tin, il mio progetto discografico per pianoforte solo: nonostante io non sia un improvvisatore per come inteso, per esempio, nel senso jazz, questi pezzi che esibisco in concerto sono intesi proprio alla maniera che dice, prendono spunto da sessioni di improvvisazione. Tutti i grandi autori del passato erano in grado di farlo, mi piace seguire questo esempio. Quando sono a casa mi siedo al pianoforte e incomincio a suonare, senza sapere dove andrò a finire: seguo l’istinto e solo dopo organizzo le idee. Incoraggio anche le nuove leve ad esercitarsi in tal senso, perché è un peccato che un musicista dotato non sappis esprimersi in totale libertà con i mezzi a sua disposizione, dipendendo sempre dallo spartito – che non deve diventare un fine o una barriera, ma rimanere un mezzo utile alla vera musica.

 

C’è un decennio o una corrente a cui è particolarmente legato dal punto di vista dello stile musicale?

Rischierò di passare per uno di quei tristi anziani che bofonchiano ‘it was much better in my day’, ma sicuramente penso al periodo prima dell’arrivo del computer: tra gli anni ’60 e ’80 un artista che voleva affermarsi doveva eseguire le sue creazioni in live, davanti a un produttore discografico, dimostrando con gli strumenti il proprio talento e la propria capacità di suonare. Un conto è avere un synth, che dà un colore tipico alle canzoni, ma grazie alla tecnologia più avanzata – diciamo quella dalla seconda metà degli anni ’90 – molti si sono dati alla musica senza avere alcuna predisposizione naturale. Per quanto questo principio possa apparire democratico ed abbia dei lati positivi (per esempio, chi non può permettersi lezioni di musica in qualche modo può emergere al grande pubblico), il livello medio del talento artistico è irrimediabilmente sceso: e chi ne paga il prezzo? Gli ascoltatori. Non penso che la tecnologia che abbiamo debba essere abbandonata, ma nemmeno che debba essere vista come la soluzione ad ogni problema: basterebbe non abusarne ed esplorare anche le alternative, quelle in grado di rendere il suono umano ed espressivo.

 

Serve comunque una qualche capacità per ottenere risultati, no?

Oggi l’artista che fa successo è quello bravo a gestire i social e l’immagine; quindi, in proporzione serve molto più talento per l’imprenditoria che creatività musicale. I problemi nascono nel momento in cui il primo oscura il secondo. Bisogna anche dire sia che i giovani non hanno tante colpe, sono nativi digitali, e che un Renato Zero, un De Gregori o un Baglioni avevano trovato ad accoglierli contesti come la scuola dell’RCA Italiana, dove erano apparecchiati a loro disposizione diversi studi e dove veniva dato loro il tempo di sperimentare, cooperare e formarsi: mi ricordo ancora di quando erano alle prime armi, lontani dall’essere famosi; lavoravano tantissimo. Gli artisti emergenti di questi tempi non hanno simili vantaggi, bisogna dirlo, è un mondo che gli presenta molti ostacoli.

 

In un’intervista per una nota emittente televisiva diceva di aver iniziato la collaborazione con Lucio Battisti senza nemmeno parlare di budget. Com’è cambiato il mercato e l’industria musicale negli ultimi anni?

In effetti neanche oggi si parla di budget, ma in un altro senso: le case discografiche non investono più soldi nelle registrazioni. Si torna al discorso di prima, i musicisti hanno la loro attrezzatura a casa e tramite quella fanno provini, frequentano master o compongono canzoni, senza bisogno di vedere quasi nessuno fuori dalla porta di casa. Diventa raro trovare band che interagiscano continuativamente, i gruppi si disgregano con grande facilità e non portano a termine progetti di ampio respiro: perciò, poi, l’offerta economica delle istituzioni diminuisce e si innescano nuovi circoli viziosi, molto semplice.

 

Lei sarà presidente di giuria dello Zo Music Contest, un evento progettato per far emergere i giovani musicisti del panorama nazionale. Cosa si aspetta da quest’esperienza?

Mi aspetto di ascoltare lavori interessanti, magari qualcosa di simile al 2018 e al 2019, quando ero Direttore Musicale del Festival di Sanremo. In quelle due edizioni io e Claudio (Baglioni, ndr) dovemmo ascoltare circa seicento proposte per la categoria Giovani: di questi avrei scartato solo una cinquantina, perché quasi tutti erano davvero in gamba, al punto che la scelta veniva fatta più per una questione di necessità e di gusto personale che per reali demeriti degli esclusi. Questo mi fa dire che non manca il talento in Italia, soprattutto se si parla di voci.

Anche questo contest riproporrà dinamiche simili: già nella prima settimana di Agosto inizieremo ad ascoltare i primi candidati. Più musicisti saranno in grado di tenere in mano una chitarra o di gestire un pianoforte, più vivo e appassionante sarà l’evento.

 

Cosa ne pensa dei talent show?

Fanno emergere tanti meritevoli, ma qui entra in gioco la questione del carattere. Se ascoltiamo pochi secondi di Cocciante o Dalla, subito riconosciamo che si tratta di loro. All’inizio delle loro carriere non era così, ma proprio la sperimentazione e il contatto reciproco gli ha consentito di differenziarsi: a poco a poco hanno costruito e rivelato la propria individualità artistica, dunque una figura professionale sviluppata e ben definita. Le dinamiche del talent show sono una grande possibilità per crescere e mettersi in mostra, ma non possono sostituire una cultura del lavoro che va curata nel quotidiano. Un ragazzo che scrive da solo nella propria camera avrà molta difficoltà non solo a farsi scoprire, ma anche a scoprirsi. Quando parlo coi giovani, nei conservatori o nelle accademie, cerco sempre di incoraggiarli ad aprirsi al mondo, metaforicamente e non: solo da questo meccanismo scaturiscono originalità e freschezza.

 

Progetti per il futuro?

Senz’altro continuare a fare musica e a collaborare con le nuove generazioni, che hanno tanto da insegnare anche a me. Sono sempre alla ricerca di nuove sfide e opportunità per contribuire al panorama musicale.

 

Geoff, grazie per questa conversazione: è stato un vero piacere parlare con lei. Buona fortuna con lo ZoMusic Contest!

Geoff Westley: Grazie a voi, un saluto a tutti i lettori di TGMusic!

 

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