di Stefano Teani
Dopo il grande successo di Gianni Schicchi e degli eventi speciali disseminati fra il Gran Teatro all’aperto, la Villa Museo e la Cittadella del Carnevale, il 66º Festival Puccini di Torre del Lago si prepara a una serie di meritati sold out. Il primo appuntamento, già esaurito da settimane, è con Tosca, diretta da Alberto Veronesi con regia di Stefano Monti.
È proprio quest’ultima la protagonista della serata. A partire dalla scenografia, più modesta e non sfarzosa come siamo abituati ad aspettarci, caratterizzata da tre cornici rotonde in verticale che dominano la scena, questo allestimento si concentra su due aspetti di cruciale importanza: l’essenzialità e lo spazio scenico. Tutto si sviluppa nell’incertezza, adattandosi alla situazione che è resa ancora più fluida dal cosiddetto “distanziamento sociale”. Per poter rispettare le norme, infatti, il regista è riuscito a reinterpretare ogni momento dell’opera creando una distanza fisica (e dunque psicologica) fra i personaggi. Di grande pregio il gioco degli specchi; la tela col volto dell’Attavanti, la cupola della chiesa, il tavolo di Scarpia nel secondo atto, tutto si rispecchia nella seconda cornice, creando effetti di gigantismo o di proiezione della psicologia dei personaggi. Geniale l’accoltellamento di Scarpia: non potendo mantenere il distanziamento, il regista ha sfruttato le luci per “accecare” il pubblico, così da non dover avvicinare i cantanti, lasciando alla platea la possibilità di completare con la propria immaginazione il lampo di violenza sprigionato da Tosca in questa fortissima scena.
Alla stessa maniera, le mascherine indossate dal coro hanno la funzione di nascondere l’identità del singolo all’interno della massa, esaltando gli occhi di ciascuno in una sorta di coralità afflitta, metafora di una chiesa che opprime.
Dal punto di vista musicale la prestazione del coro, diretto da Roberto Ardigò, e delle voci bianche, dirette da Viviana Apicella, risulta buona ed equilibrata, con una discreta precisione, nonostante la grande distanza dal proscenio e la limitazione delle mascherine abbia giocato a loro sfavore. Si è trattato inoltre di una serata un po’ sfortunata a causa di alcuni problemi di amplificazione dovuti probabilmente al forte vento che rientrava spesso nei microfoni e aumentava la dispersione del suono.
Buona la prestazione del cast, che ha saputo emozionare il pubblico, come dimostrano i molti applausi e le sporadiche richieste di bis dopo le arie più note. Discreta la protagonista, Amarilli Nizza, che riesce sicura nel registro acuto ma perde potenza in quello medio-grave. Si nota inoltre un’emissione non del tutto stabile, con un uso eccessivo del vibrato, aspetto che ha un po’ intaccato un’interpretazione complessivamente convincente.
Vera star della serata è il tenore Amadi Lagha, che ha dimostrato grande padronanza vocale per tutta la durata dell’opera, mantenendo sempre un gran volume e una totale sicurezza nei vari registri, in particolare quello acuto. Unica pecca: nessuno ha pensato di lavorare con lui musicalmente per curare una concertazione più raffinata e variegata, lasciandolo a se stesso come un meraviglioso blocco di marmo da dover scolpire.
Un plauso per Devid Cecconi nei panni di Scarpia, ben calato nella parte e dotato di un bel timbro; peccato che – nel difficile contesto del teatro all’aperto – con i problemi di amplificazione già accennati, abbia un po’ sofferto perdendo alcuni gravi.
Niente da dire su Davide Mura nei panni di Angelotti, sempre piuttosto chiaro nell’emissione e dall’interpretazione convincente.
Buono il Sagrestano di Claudio Ottino, sempre puntuale nei suoi interventi; un po’ spinto lo Spoletta di Marco Voleri, probabilmente la paura dell’amplificazione lo ha portato a forzare quando non sarebbe stato necessario. Scenicamente molto appropriato. Ottimo lavoro per Alessandro Ceccarini (Sciarrone), Massimo Schillaci (Un Carceriere) e Nicholas Ceragioli (Un pastorello); quest’ultimo addirittura pecca per eccesso di zelo, regalando al pubblico un pastorello così raffinato da cantare con un’impostazione quasi lirica.
Infine una nota di merito all’Orchestra del Festival Puccini che ogni volta dà prova di competenza e volontà di migliorarsi, ricercando un suono sempre più spiccatamente pucciniano. In particolare gli ottoni, che hanno saputo plasmare un suono morbido ma sempre presente e austero, e il solo del clarinetto nell’introduzione alla celebre aria “E lucevan le stelle”; raramente capita di ascoltare un fraseggio così curato e consapevole.
Sotto scroscianti applausi si conclude la serata all’insegna della musica immortale del Maestro al quale questo Festival si impegna a tributare i giusti onori.
La recensione si riferisce alla serata del 6 agosto 2020.
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